Questa Italia che non conosciamo

Era prevedibile: Berlusconi contesta il risultato elettorale, non riconosce (per ora) la vittoria dell’Unione, evoca parole inquietanti come “guerra civile”. Allo stesso tempo, però, il Cavaliere fa sua la proposta politica evocata da molti osservatori: la Grosse Koalition già sperimentata in Germania dopo un risultato elettorale non molto dissimile dal nostro. Una proposta non solo “irricevibile”, ma francamente impraticabile, dopo una campagna elettorale tanto forsennata e uno scontro tra i due Poli pressoché frontale.
Come si fa a pensare, ora, ad un accordo politico e programmatico tra due schieramenti che hanno incarnato, a larghi tratti, due idee alternative della società e della politica? Come si fa ad immaginare il premier – lo stesso che ha dato a Prodi dell’”utile idiota” e dei “coglioni” agli elettori dell’Unione – nei panni di Angela Merkel? Come si fa, insomma, dopo tante chiacchiere sul bipolarismo e l’alternanza, a rinunciare ad una vittoria, per quanto faticata essa sia stata, e tornare alla solita vecchia politica dell’”inciucio”?

E tuttavia la prospettiva di una pur improbabile (e politicamente indecente) politica di “unità nazionale” un argomento, dalla sua, ce l’ha: l’impressionante divisione in due del Paese che il voto del 9 e del 10 aprile ha fotografato e che, come dicono i politologi, rende comunque difficile governare, chiunque siano i governanti. Sembra quasi di buon senso: se la verità di fondo del voto è che l’Italia è spaccata in due metà, quasi equivalenti, la soluzione migliore non è forse quella di unirsi, dando un calcio a tutte le contrapposizioni di ieri e dell’altro ieri?

In fondo, è quello che davvero i poteri forti – come Confindustria – hanno chiesto, anche dettando ricette e contenuti programmatici. E, al di là delle tendenze del presente, questo resta il paese del compromesso storico – e la politica di unità nazionale ha illustri, per quanto discutibilissimi, precedenti storici autoctoni.

Ecco, proprio il carattere apparentemente “persuasivo” di questa idea ci deve spingere a un No tanto determinato quanto riflettuto: a difendere fino in fondo la pur faticata vittoria che abbiamo conquistato. Solo che, per esser davvero tale, questa vittoria deve assumere due dati politicamente centrali.

Il primo è l’assunzione piena del messaggio di radicalità che il voto ha comunque manifestato. Una maggioranza di italiani ha chiesto di voltare pagina, e di voltarla sul serio. Per quanto questo sia avvenuto col minimo scarto, col golden goal, o per un pugno di voti, questo è avvenuto: una domanda e, insieme un investimento politico nella politica. Ciò impegna il governo dell’Unione soprattutto a una cosa: a essere se stesso. A mettere in pratica le idee e le proposte che gli hanno fatto conquistare il consenso. A cominciare, subito, a realizzare il programma solennemente varato.

Se questo non avvenisse, se prendessero il sopravvento altre soluzioni, l’esito sarebbe drammatico: ne verrebbe inficiata la serietà della politica. Chi l’avrebbe mai detto che, in una fase così convulsa e complicata, perfino la “banale” opzione dell’alternanza si sarebbe rivelata, in un modo o nell’altro, una carta di trasformazione?

Il secondo dato è l’avvio, contestuale, di una riflessione di fondo sul voto – insomma, della capacità di capire davvero che cosa è successo, e di trarne le conseguenze necessarie di iniziativa e azione politica, ed anche ideale, se è consentita la parola. Conviene soffermarsi su una verità che non possiamo esorcizzare: la destra resta fortissima – e il suo leader, Silvio Berlusconi, dato da quasi tutti politicamente defunto, detestato dalle masse popolari, abbandonato da una larga parte dell’establishment (dalla dirigenza di Confindustria ai grandi giornali d’opinione, dalle banche alla magistratura, dall’élite intellettuale ai salotti borghesi), ha mostrato una rilevantissima capacità di recupero.

Lasciamo parlare, per un attimo, il crudo linguaggio dei numeri, non solo delle percentuali: rispetto alle elezioni europee del 2004, Forza Italia ha riconquistato oltre due milioni di voti (per l’esattezza 2.234.226), e non lo ha fatto a spese dei partner (Alleanza nazionale ha riacchiappato quasi un milione di voti, 953.442, mentre l’Udc ne ha presi 666.687 in più rispetto alla vecchia lista Ccd-Cdu). In totale, i tre maggiori partiti del centrodestra hanno fatto un balzo di quasi quattro milioni di voti, 3.854.355.

Va bene, il confronto tra elezioni disomogenee vale quello che vale, e soprattutto il 9-10 aprile ha registrato un autentico boom di votanti. Ma si tratta pur sempre di spostamenti massicci, fisicamente visibili, del corpo elettorale, cittadine e cittadini che sono tornati a votare a destra, per Berlusconi e per il suo governo. Che hanno vinto, forse, la loro naturale propensione a non muoversi da casa, il giorno del voto, o a preferire alle urne una gita al mare. Che, insomma, hanno risposto al richiamo del Cavaliere – e un po’ anche a quello di Fini e Casini – dopo le devastazioni sociali di questi anni e dopo una campagna elettorale tanto forsennata.
Ecco il punto: questa mobilitazione, o per meglio dire la sua entità e compattezza, non le avevamo previste. Così, scopriamo oggi che non abbiamo davvero capito l’Italia: non la conosciamo noi, non la conosce l’Unione, ce ne sfugge una parte profonda. Proprio come è sfuggita ai “sondaggisti” fallaci: i loro errori marchiani, prima, dopo e durante il voto, non sono il risultato di una inadeguatezza tecnico-scientifica, ma il frutto di una rappresentazione sbagliata del Paese, dei suoi umori di fondo e quindi dei suoi “campioni”. Un problema politico, sociale, antropologico, che, come tali, non sono certo di competenza della Nexus o dell’Abacus. Ma nostra.

Appunto. Ma qual è la natura sociale del blocco di consenso che si è ricomposto attorno a Berlusconi? Come è fatta l’Italia – del “Nord produttivo” e di un pezzo del Sud – che ha risposto al richiamo viscerale della destra? Quali sono gli interessi che essa incarna, ma anche, se non forse soprattutto, quali le molle ideologiche e “valoriali” da cui è sospinta? Queste ed altre mille domande necessitano di una risposta non solo e non tanto “sociologica”, ma politica: quella che serve per avviare una vera politica di trasformazione, oltre i palazzi, nel cuore dei processi sociali e degli immaginari collettivi.

Potremmo scoprire che, se il berlusconismo del 2001 era effettivamente tramontato come “ricetta” politica efficace di governo del paese, un nuovo “berlusconismo antropologico” nel frattempo cresceva e piantava radici: smesse le velleità “moderate”, e ogni attitudine di natura tradizionalmente conservatrice, esso sceglieva come sua carta precipua il populismo, l’antipolitica, la rivolta fiscale, la difesa nuda e cruda della proprietà e delle disuguaglianze sociali – sullo sfondo di un anticomunismo “elementare” che, a noi veteroilluministi, è apparso solo trito e ridicolo.

Possiamo ipotizzare che la crisi di civiltà – la crisi dell’Occidente di cui tanto abbiamo parlato – produce un disagio di massa così generalizzato e profondo, che spacca la società non solo “verticalmente” ma anche “orizzontalmente”. E diffonde a profusione l’insicurezza e la paura – paura del nuovo e del diverso, paura di perdere i propri privilegi, anche piccoli, paura di ogni cambiamento, che appare solo come un salto nel buio.

Questo, per noi, è il modo giusto per parlare all’intero Paese, compresa quella quasi metà di italiani che non ci hanno votato: fare una politica capace di contenere dentro di sé anche un’idea (e una pratica) di rifondazione della politica stessa. Dobbiamo riconquistare alla politica una parte larga di popolazione, che ne diffida e ne fugge: un compito enorme ma difficilmente eludibile.

Dobbiamo sapere che, se non cresce nei luoghi reali della società, nei territori, nelle così dette “periferie”, nei conflitti maturi la pianta di una nuova politica, l’Unione rischia di non riuscire a portare avanti nessuna vera riforma, nessun “nuovo inizio” italiano. Ecco un altro inedito legame virtuoso che la situazione ha prodotto: un governo, il governo Prodi, che avrà successo solo se sarà capace di non delegare a se stesso la politica, solo se se comincerà a combattere la battaglia contro il nuovo berlusconismo là dove esso è nato e si è radicato. Ce la faremo? In ogni caso, ci dobbiamo provare – e riprovare.