Prendendo a prestito le parole di Akiva Orr, uno dei partigiani fondatori d’Israele che dice all’autore del libro: «Noi israeliani abbiamo un grande problema: non conosciamo la nostra storia. Siamo convinti che l’odio arabo generi conflitto; ma è vero il contrario, è il conflitto che genera odio. E il conflitto siamo noi», possiamo dire che anche l’occidente non conosce la storia, per questo è convinto che esista un mondo islamico terrorista e pieno d’odio – perfino strutturalmente, sostiene papa Ratzinger. Quando è vero il contrario: i portatori di terrore e guerra siamo noi, ed è per questo che ci odiano. È la tesi sostenuta da Paolo Barnard in Perché ci odiano (Rizzoli, collana «Futuro-passato», pp. 347, euro 9,60) straordinario libro di denuncia. Boicottato finora da una spessa cortina di recensioni bloccate dalla censura dei giornali, in primis dello stesso Corriere della Sera. Forse perché è un libro pericoloso. Nasce dall’assunto – illuministico? – delle parole di Noam Chomsky: «Il mondo non tollera la barbarie e la Storia ci ha insegnato che quando la scopre si attiva per porle fine».
Paolo Barnard, tra i primi inviati della trasmissione Reporter, pensa ad un ruolo dei media e dell’informazione come ad un grande sistema di conoscenza civile e preventiva. Nella convinzione che la mostruosità e la criminalità del terrorismo islamico siano «il prodotto di un terrorismo più feroce e immensamente più sanguinario del loro, e cioè il nostro, quello praticato su larga scala dalle politiche estere delle maggiori potenze occidentali». E soprattutto che senza una consapevolezza e una rettifica da parte dei cittadini dei paesi cosiddetti civili di «quanto abbiamo fatto sulla pelle di milioni di nostre vittime nel mondo, l’odio contro di noi non si placherà», anzi si estenderà e siamo destinati a morirne.
Ritorno di fiamma
Assolutamente distante dalle tesi complottarde – sia di «Al Qaeda» che di «Bush e neocon» – Paolo Barnard vede nell’11 settembre, da poco celebrato, l’emergere e l’avviarsi di questo odio di ritorno. L’occhio è rivolto alle vittime delle Torri gemelle, ai pendolari dilaniati della stazione Atocha a Madrid e a quelli della metropolitana e dei bus di Londra, ai turisti di Bali, Sharm el Sheik, Il Cairo e Istanbul. È certo che gli esecutori materiali di quelle stragi sono stati i terroristi dell’Islam estremo e che vanno fermati, meno noto è il sistema di menzogne con cui la maggior parte dei governi e dei media hanno nascosto il perché, le «ragioni» e le motivazioni del loro odio contro di noi. Tutti raccontano che ci vogliono salvare. Ma tutti ci nascondono la «natura della malattia»: il «nostro terrorismo», il nostro sistema di violenza. Se non abbiamo un’idea fondata di cosa possa aver prodotto una mostruosità come Bin Laden e Al Qaeda, sostiene Paolo Barnard, «è perché quasi tutto quello che abbiamo sempre saputo di politica internazionale e di terrorismo è in gran parte falso. Falsa è l’immagine di un occidente che esporta progresso e democrazia, così come falso è stato il ruolo di portatori e mediatori di pace dei nostri diplomatici». Perché chi ha ospitato, protetto, armato e addestrato terroristi più di chiunque altro al mondo siamo stati noi occidentali: Stati uniti, Gran Bretagna, Russia e Israele hanno primeggiato e primeggiano in questa categoria. Un elenco certo ben più lungo delle trecentocinquanta pagine del libro Perché ci odiano – che si avvale anche di un pregevole saggio sulla Cecenia di Giorgio Fornoni – rigorosamente documentato da Paolo Barnard con materiali spesso inediti o da poco resi «pubblici» dall’intelligence Usa.
Dall’Iran al Cile
Comincia dall’assoluto silenzio sulla grande espulsione, la Nakba, che dal 1948 al 1949 cacciò dalla Palestina settecentomila persone, gli abitanti che c’erano prima della fondazione dello Stato d’Israele, come ha testimoniato la nuova storiografia israeliana guidata da Ilan Pappe, con tante stragi terroriste contro i palestinesi – a cominciare dal massacro di Deir Yassin fino all’occupazione militare dei territori palestinesi nel 1967, che continua tuttora in Cisgiordania impedendo la nascita dello Stato di Palestina, con il Muro, gli insediamenti «legali» e i ritiri «unilaterali» quanto velleitari solo da Gaza.
Quel filo rosso-sangue del nostro terrorismo è stato tessuto negli anni Cinquanta con il golpe in Iran contro il laico Mossadeq ad opera della Cia e – Vietnam a parte, con due milioni di morti – è proseguito in Indonesia nel 1965 con l’eliminazione fisica di un milione di comunisti e il genocidio delle popolazioni cinesi (anche nella già turistica Bali). La terribile parola «Jakarta» è poi tornata sui muri di Valparaiso nel 1973, il cuore del pronunciamento militare del generale Augusto Pinochet contro il governo democratico di Salvador Allende in Cile, con annessi altri golpe dell’Operazione Condor in America latina, a cominciare dall’Argentina. Negli anni Ottanta ha visto il disastro della guerra Iraq-Iran, per interposti interessi petroliferi e strategici occidentali – allora Saddam Hussein era il nostro miglior alleato. Con la premessa sanguinosa del Libano dove, oltre alla guerra tra le opposte fazioni spesso in chiave anti-palestinese, a ripetizione si sono susseguiti gli interventi militari e l’occupazione da parte israeliana con il massacro di Sabra e Shatila il 16 settembre 1982.
Il silenzio occidentale
È in questo momento che il Libano diventa il punto cruciale di questo «terrorismo di ritorno». Alla fine degli anni Ottanta il nostro terrorismo lavorerà alla destabilizzazione del Centroamerica (Nicaragua e Salvador) e in Africa (Sudafrica, Angola e Mozambico). Ed arruolerà un nuovo islamismo combattente, i mujaheddin, dall’Afghanistan occupato militarmente dai sovietici alla Bosnia. Qui si farà le ossa l’ex giovane imprenditore Osama bin Laden. Ma la sua ideologia e prospettiva criminale avevano preso le mosse proprio dal Libano. Ecco il testo del messaggio di Bin Laden dell’ottobre 2004, certificato come sempre dalla Cia: «Gli eventi che ebbero una influenza diretta su di me si svolsero nel 1982, e poi successivamente, quando gli Usa permisero a Israele di invadere il Libano con l’aiuto della Sesta flotta americana. Cominciarono a bombardare, e tanti morirono, altri dovettero fuggire terrorizzati. Ancora ricordo quelle scene commoventi – sangue, corpi dilaniati, donne e bambini morti; case sventrate ovunque e interi palazzi che furono fatti crollare sui loro residenti… Tutto il mondo vide e sentì e non fece nulla. In quei momenti critici fui sopraffatto da idee che non posso neppure descrivere, ma esse svegliarono in me un impulso potente a ribellarmi all’ingiustizia, e fecero nascere in me la ferma determinazione a punire l’oppressore». Incredibile come la descrizione ricordi la guerra d’estate in Libano, che abbiamo guardato impotenti per trentaquattro giorni. L’autore è convinto che un moto di verità e di risarcimento – accadde nel 2004 in Spagna contro Aznar, pur in presenza degli attentati dei terroristi islamisti – prenda il sopravvento nel mondo «civile» dove, come ha scritto lo storico americano Edward Herman, «nell’assurdo teatro della guerra al terrorismo, è come se la Mafia si fosse posta alla guida della Corte internazionale di giustizia dell’Aja». E perché ci guardano «le giovani e i giovani musulmani degli slums di Karachi e Rabat, delle periferie di Berlino o di Parigi, di Londra o di Roma, gli inascoltati, quelli che gli Stati abbandonano nelle mani di un welfare sotterraneo e parallelo», offesi e inferociti dalla caparbia negazione delle nostre ingiustizie storiche.