Quella “necessità storica” del Partito democratico…

La “necessità storica” è stata scomodata ieri, a Firenze, da Piero Fassino nel corso della relazione di apertura dell’ultimo congresso dei Ds che sancirà la fine (l’eutanasia) del Partito, propedeutica alla confluenza (neo-democristiana) nel Partito democratico. Non è l’unica citazione, né l’unica concessione al lessico del glorioso Pci. Fassino ha parlato anche (persino) di “Partito nuovo”. Forse, chi sa, per il rimorso di essersi ben guardato dall’inserire Togliatti nel Pantheon della nuova formazione politica. Le mode, il conformismo, le mutazioni ideologiche non l’avrebbero consentito. E allora – deve avere pensato – facciamo al Migliore almeno l’onore di riprendere una delle sue espressioni più caratterizzanti e ricche di signifcato. “Necessità storica” ha un altro pedigree. Rinvia al pensiero storicista e alle filosofie della storia che ne discendono. Ne faceva abbondantemente uso anche Gramsci, per suggerire che di qualcosa non si sarebbe potuto fare a meno, che si trattava di un che di inevitabile, perché inscritto nella logica stessa dei processi. Oggi, per Piero Fassino, tutto questo si può dire del Partito democratico. C’è da chiedersi che cosa gli appaia tanto “necessario” da meritarsi la qualifica di “storicamente” ineluttabile. Noi avremmo grande difficoltà a rispondere. Lui no, lo sappiamo bene. E conosciamo anche la risposta: la “governabilità” (Craxi, la svolta dell’Eur, oggi Padoa-Schioppa), la “modernizzazione” (la concertazione, il neoliberismo, Maastricht e la Bce), un “Paese normale” (l’eterno rivale Massimo D’Alema e il bipolarismo). In una parola, come scriveva ieri Paolo Mieli sul “Corriere della sera”, l’opzione esplicita e definitiva per il modello americano, quello di una democrazia “compiuta”, cioè oligarchica e ben difesa dai pericoli della partecipazione e del conflitto sociale. (a.b.)