Ciao, Fidel. La prognosi è favorevole, nessun imminente pericolo di vita. Willy il Selvaggio – gli energumeni sciacalli di Miami che hanno brindato e osannato prematuramente alla sua uscita di scena – può tornare a casa scornato. “Festa” rimandata. Il cielo può attendere.
Il 13 agosto, alla faccia della Cia che ha tentato almeno 150 volte di ucciderlo, il Comandante compie ottant’anni. Ciao, Fidel, duraturo capo dell’Isla “canaglia”. Per l’occasione, parliamo un po’ di lui sulla scorta di due libri freschi di stampa. Il primo è “L’uomo che inventò Fidel” di Anthony De Palma (Nuovi Mondi Media, pp. 264, euro 18,50); il secondo, è “Prima della Rivoluzione. Memorie di un giovane lider” (Minimum Fax, pp.219, euro 14), che raccoglie interviste, ricordi, memorie, dall’infanzia all’esilio in Messico, firmati in prima persona da Castro stesso. Un bel collage.
«Un giorno Castro gli chiese se la gente in pianura parlasse di lui. «Che cosa dicono di me?», gli domandò. «Dicono che sei morto». «Che sono morto?». «Così dicono». Castro capì che era ora di far sapere che era nella Sierra. Il dialogo si svolge tra il leader e Eutimio Guerra, il contadino che fa da informatore tra la guerriglia e la città. E’ il gennaio 1957 e Castro, coi suoi ottanta compagni, quasi tutti sotto i venticinque anni, è da un anno sulla montagna della Provincia d’Oriente; esattamente dal 1 dicembre 1956, quando, rocambolescamente, da una carretta del mare di nome Granma, era riuscito a mettere piedi sull’isola. In quello che più che uno sbarco, disse lui stesso, «era un naufragio».
La risposta del contadino lo preoccupa, gli fa capire che è indispensabile “battere un colpo”, far parlare, coinvolgere la stampa. Il libro di Anthony De Palma è appunto la storia di come ciò è potuto avvenire, in piena Sierra Maestra e sotto i fucili puntati dei rangers di Batista, sguinzagliati a caccia dei “fantomatici” ribelli.
Subito dopo lo sbarco, il governo di Batista si era infatti affrettato a far sapere che tutto era finito in niente; che di quei quattro pazzi sbarcati dalla scalcagnata barca, alcuni erano annegati, gli altri catturati e uccisi, ivi compreso il loro capo, il misterioso Castro. Insomma incidente chiuso (tanto che Batista «non aveva nemmeno interrotto la sua partita di canasta»).
Attraverso emissari segreti, e con la complicità di Ruby Phillips, corrispondente all’Avana del New York Times, un giorno un messaggio arriva a Herbert Lionel Matthews, giornalista di grande prestigio dello stesso giornale: Fidel Castro è disponibile ad incontrarlo. «Herbert Matthews giunse all’Avana su un volo proveniente da New York la sera di sabato 9 febbraio, disse ai funzionari cubani dell’immigrazione che lui e Nancie (la moglie, ndr) erano lì in vacanza». Dopo una settimana, nella sua camera d’albergo suona il telefono, «verranno a prendervi tra un’ora». L’intervista era programmata per la notte successiva. Vanno il giornalista e la moglie mimetizzati da ricchi americani in gita e il giovane cubano alla guida della jeep; superano cinque-sei posti di blocco; ed è ormai mezzanotte quando finalmente giungono nel punto dove avrebbero dovuto trovare gli uomini di Castro. «Ma non c’era nessuno». Trascorre così praticamente tutta la notte. Era appena spuntata l’alba, «Castro si fece strada tra i rachitici alberi di guagasì. Indossava un’uniforme di fatica pulita e un berretto color verde militare, aveva con sé un lungo fucile con mirino telescopico di precisione».
L’intervista durò circa tre ore. Matthews descriveva: «I suoi occhi castani scintillano. Il suo volto intenso proteso verso l’ascoltatore, e la voce sussurrante, come in una rappresentazione teatrale, gli conferiscono un vivido senso drammatico». Il primo articolo uscì domenica 24 febbraio. Titolo “Ribelle cubano visitato nel suo nascondiglio”; sottotitolo “Castro è ancora vivo e combatte sui monti”. Sotto la fotografia di Castro, «nell’elaborata grafia del ribelle, erano impresse la sua firma e la testimonianza silenziosa delle parole “Sierra Maestra, Febrero 17 de 1957”.
Fu uno scoop enorme. Subito dopo la pubblicazione dei tre articoli di Matthews, tutti i principali organi di stampa e mezzi di informazione volevano entrare in contatto coi rivoluzionari cubani, una troupe televisiva della Cbs calò all’Avana e sull’Isla, come per miracolo, tutti parlavano di Castro e della Sierra.
La leggenda di Fidel era nata. «Commisero abusi di ogni tipo, crimini di ogni forma e furti in tutte le classi sociali! Non si sa nemmeno quanto rubò quella gente, quanto saccheggiarono il paese! Batista era il burattino degli Stati Uniti». Così Castro racconta, nel libro pubblicato da Minimum Fax, la sua iniziazione politica: ribellione alla ingiustizia sociale e lotta al sopruso politico. Come il fratello Raul, era iscritto al partito Autentico, o Partito del Popolo Cubano e si batteva con gli altri studenti all’interno dell’Università. «Avevo una coscienza antimperialista, ma non ero né vincolato né affiliato al Partito Comunista. Io condividevo l’idea tradizionale di guerra d’indipendenza, avevo una visione martiana, una grande simpatia per Martì e le sue idee, finché non entrai per la prima volta in contatto con le idee economiche, con le assurdità del capitalismo, e così sviluppai un pensiero utopico, da socialista utopico, non da socialista scientifico. Per questo ebbe una forte influenza su di me il momento in cui mi trovai a confrontarmi per la prima volta con il famoso Manifesto del Partito Comunista di Marx».
«Io credo che lo stato dovrebbe risolvere i problemi togliendo il denaro ai ricchi. Bisognerebbe triplicare le tasse sui palazzi, sulle eredità destinate allo sperpero, sui redditi favolosi che vengono spesi in beni di lusso». «In questo momento, in molti paesi (compreso il nostro) l’istruzione è obbligatoria soltanto in teoria. Ci sono però altre cose ancora più obbligatorie: la povertà, l’incompetenza e l’anacronismo». «La borghesia ci accusa di voler abolire la proprietà privata, la verità è che la proprietà privata è già stata abolita per i nove decimi della popolazione e può esistere per gli altri solo non esistendo per i primi». Sono alcuni “pensieri” del giovane Castro, dal carcere dove si trova dopo il fallito assalto al Moncada, anno 1954.
Non era comunista. Lo diventerà. Nel primo dei tre famosi articoli, Matthews descriveva Fidel come «il simbolo fiammeggiante dell’opposizione» al regime di Batista e prevedeva che, dopo, la nuova Cuba castrista sarebbe stata radicale e democratica. «Quindi anticomunista». Lo scoop fu grande e bello. Ma su quest’ultimo punto, Matthews si sbagliò.
Ciao Fidel.