Quella legge sulla Carta a cancellare

Referendum. E’ intorno a questo scempio che oggi occorre informare e mobilitare l’opinione pubblica nel corso della prossima campagna referendaria per una battaglia civile di rifondazione della democrazia costituzionale

Le carte costituzionali sono sempre le carte d’identità degli ordinamenti da esse costituiti e disegnati. Ciò vale per la Costituzione italiana del 1948, come per tutte le altre costituzioni, le quali sono di solito, se degne del loro nome, patti di convivenza generati dall’accordo di tutte le forze politiche rappresentative delle società cui sono destinate. La legge di revisione costituzionale recentemente approvata dalla maggioranza berlusconiana è invece la carta d’identità della destra, che riflette la concezione e soprattutto la pratica della democrazia che è propria di questa destra e che questa destra – proprio perché composta da forze estranee o ostili al patto costituzionale del 1948 – intende imporre come nuova carta d’identità della Repubblica. Questa legge, d’altro canto, equivale a una rottura non soltanto della continuità costituzionale, ma del paradigma stesso del costituzionalismo democratico: in breve, a una sostanziale decostituzionalizzazione della nostra democrazia e alla costituzionalizzazione di tutti i principali elementi di crisi – primo tra tutti la personalizzazione del sistema politico e la concentrazione dei poteri nelle mani del presidente del consiglio – introdotti dal berlusconismo nella costituzione materiale della Repubblica. E’ questo l’aspetto più grave e allarmante dello scempio realizzato: la trasformazione in costituzione formale di una concezione e di una pratica anti-parlamentare e extra-costituzionale della democrazia largamente penetrata nel senso comune, anche di sinistra, e già tradottasi in un’alterazione del nostro assetto costituzionale. Ne è prova il fatto che in tutto il ceto politico, nella stampa e nella televisione, la riforma è stata identificata semplicemente con la cosiddetta devolution: come se l’alterazione più importante, anzi la sola cosa veramente importante da essa introdotta, fosse la parte, pur gravissima, dedicata al federalismo e non quella, di gran lunga più devastante ma enormemente sottovalutata, che riguarda l’assetto istituzionale del sistema politico.

E’ dunque lo stravolgimento degli equilibri democratici introdotto da questa riforma che deve essere innanzitutto denunciato nel corso della prossima campagna referendaria. Mi limiterò a illustrare due manomissioni: l’incredibile complicazione della funzione legislativa e la demolizione del principio della rappresentanza politica.

Grazie alla prima manomissione, la funzione legislativa del Parlamento è destinata alla paralisi. L’attuale art.70 – che si compone di una sola riga: «La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere» – viene sostituito da un lunghissimo articolo che sembra il frutto di una mente malata. Il nuovo testo introduce infatti ben quattro tipi di fonti:

1. leggi di competenza della sola Camera cui il Senato può proporre modifiche su cui la Camera decide in via definitiva;

2. leggi di competenza del solo Senato cui la Camera può proporre modifiche su cui il Senato decide in via definitiva;

3. leggi di competenza congiunta di entrambe le Camere;

4. leggi di competenza del Senato sulle quali il governo, ove ne ricorrano taluni presupposti, può proporre modifiche essenziali.

E’ difficile capire se ci troviamo di fronte a una prova di dissennatezza istituzionale oppure a un consapevole sabotaggio della funzione legislativa, destinato a lasciare spazio illimitato alla decretazione d’urgenza del governo. Possiamo infatti immaginare il caos istituzionale che proverrà da una divisione delle competenze tra questi quattro tipi di fonti, a causa delle incertezze e degli infiniti contenziosi che saranno generati da una ripartizione inevitabilmente generica e astratta delle quattro classi di materie ad essi attribuite. Per risolvere gli inevitabili conflitti che ne nasceranno sono stati architettati una Commissione e un Comitato paritetici, l’una di 60 e l’altra di 8 parlamentari – di fatto due nuove Camere – competenti l’una a proporre un «testo unificato» in caso di disaccordo tra Camera e Senato nelle leggi di competenza congiunta, l’altro a decidere su quale delle quattro fonti è chiamata a decidere. Ma non è stato stabilito che cosa accadrà se il testo elaborato dalla Commissione sulle materie di competenza congiunta non sarà approvato da entrambe le Assemblee, o se non sarà raggiunto l’accordo all’interno del Comitato. Né si è previsto cosa accadrà in caso di conflitto tra conflitti destinati ad essere risolti in sedi diverse: l’uno tra Stato e Regione, sulle loro rispettive competenze, affidato, in base all’art.134, al giudizio della Corte costituzionale; l’altro tra Camera e Senato federale sulle medesime materie, destinato ad essere risolto dai presidenti delle due Camere o dal Comitato da essi istituito.

Ancor più grave è la seconda manomissione, consistente in un duplice svuotamento del principio della rappresentanza politica. Viene innanzitutto soppresso, dal nuovo testo, il voto di fiducia delle Camere nei confronti del Primo ministro, la cui legittimazione è rimessa direttamente al voto popolare. Si prevede solo che sia lo stesso Primo ministro che, per disciplinare la propria maggioranza, possa «porre la questione di fiducia e chiedere che la Camera dei deputati si esprima, con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del Governo», ovviamente «per appello nominale». Sarà al contrario il Primo ministro che potrà chiedere lo scioglimento delle Camere assumendone «l’esclusiva responsabilità». E’ così che il rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo si capovolge. Non sarà più il Governo che dovrà avere la fiducia del Parlamento, ma sarà il Parlamento che dovrà avere la fiducia del Primo ministro.

Viene in secondo luogo modificato lo statuto del parlamentare, trasformato in un mandatario passivo della coalizione nella quale è stato eletto e per essa del suo capo. «La mozione di sfiducia», dice il nuovo art. 94, deve essere sempre «votata per appello nominale e approvata dalla maggioranza assoluta dei componenti» della Camera; nel qual caso comporta, oltre alle dimissioni del Primo ministro, lo scioglimento della Camera medesima. Solo la cosiddetta sfiducia costruttiva, cioè accompagnata dalla designazione di un nuovo Primo ministro, consente la prosecuzione della legislatura. Tuttavia tale designazione deve essere operata «da parte dei deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera». Non solo. In forza di un’altra norma anti-ribaltone, «il Primo ministro si dimette altresì qualora la mozione di sfiducia sia stata respinta con il voto determinante dei deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni».

Non sarà insomma più possibile cambiare in Parlamento la maggioranza di Governo. Maggioranza e minoranza vengono blindate, sicché solo i parlamentari della maggioranza avranno – non già singolarmente, ma nel loro insieme – un potere di iniziativa politica e di responsabilizzazione dell’esecutivo, mentre i parlamentari della minoranza non conteranno nulla. E’ la fine della rappresentanza politica senza vincolo di mandato, essendo ciascun parlamentare vincolato alla coalizione di appartenenza. Ed è la violazione vistosa del principio basilare della democrazia politica, sancito dall’art. 67, secondo il quale «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Ne risulta infatti un mandato imperativo dall’alto che vanifica il ruolo di controllo dell’intero Parlamento. Il suo effetto sarà quello non solo di emarginare l’opposizione, ma anche di disciplinare, ricattare e neutralizzare – come del resto è di fatto accaduto in questa legislatura – ogni potere di controllo della stessa maggioranza parlamentare.

E’ intorno a questo scempio che oggi occorre informare e mobilitare l’opinione pubblica nel corso della prossima campagna referendaria. Ma è chiaro che, per essere vinto, il referendum deve divenire una grande battaglia civile di rifondazione della democrazia costituzionale, non inquinata da proposte di compromesso del tipo «no a questa riforma» ma ad altre, nuove proposte di «aggiornamento». E questo potrà avvenire tanto quanto saranno soddisfatte due condizioni.

La prima è che il referendum venga promosso, nei tre mesi che ci separano dalla pubblicazione della legge di revisione sulla Gazzetta ufficiale, da un fronte di forze ben più largo di quello richiesto dall’art. 138 della Costituzione e già rappresentativo della maggioranza degli elettori: non dunque soltanto da un quinto dei membri di una Camera, ma da tutti i parlamentari dell’opposizione più quelli che nella maggioranza hanno manifestato dubbi e contrarietà; non soltanto da cinque Consigli regionali, ma da tutti i Consigli regionali nei quali il centro sinistra è maggioranza, e perciò dalla maggioranza delle Regioni; non soltanto da 500.000 elettori, ma da milioni di cittadini, utilizzando magari per la raccolta delle firme le votazioni primarie finora programmate o da programmare in vista delle prossime elezioni.

La seconda condizione è che il referendum si svolga all’insegna dell’emergenza democratica, oltre che costituzionale, e divenga un’occasione per una riflessione critica e autocritica sulla gravità della posta in gioco, sui guasti prodotti da oltre un decennio di logoramento costituzionale e sul nesso indissolubile che lega costituzione e democrazia. Sotto questo aspetto la campagna per le elezioni politiche e quella referendaria potranno avvantaggiarsi l’una dell’altra, avendo un tema centrale comune: la sconfitta culturale, oltre che politica, del progetto berlusconiano e della concezione della democrazia che è alle sue spalle e, insieme, la rifondazione, nello spirito pubblico, del carattere antifascista e garantista della Costituzione repubblicana e del suo valore normativo di programma politico e sociale, ancora in gran parte da attuare, e di fondamento e presidio della nostra democrazia.