Quel razzismo rozzo degli italiani fascisti

La difesa della razza mi è capitata tra le mani quasi per caso, un giorno che Umberto Eco mi consegnò in visione la serie completa dei 118 numeri della rivista, raccomandandomi di restituirgliela non appena avessi finito di esaminarla. Sfogliando le pagine della rivista, traboccanti degli stereotipi razzisti più beceri, la mia prima reazione è stata a metà tra lo sbigottimento e l’indignazione: da una parte mi sembrava impossibile che all’epoca dei miei nonni ci fosse qualcuno disposto a credere a certe assurdità, e per questo mi sono chiesta quanto peso avesse veramente La difesa della razza nel plasmare le opinioni degli italiani sotto il fascismo.
D’altra parte, non potevo evitare di pensare agli effetti devastanti prodotti dal razzismo e dall’antisemitismo fascisti – dall’eugenetica al colonialismo e alle leggi razziali, in uno slittamento progressivo che come sappiamo condusse dritto alla Shoah – ed ecco che si ripresentava l’annosa questione: come è potuto succedere tutto ciò, a maggior ragione a fronte della pochezza retorica della propaganda fascista? È una questione che, per quanto mi riguarda, rimane tuttora aperta.
Proprio per condividere questa esperienza inquietante con altri, e visto che per quanto ne sapevo La difesa della razza non era stata fatta oggetto di studi storici approfonditi (con l’eccezione del catalogo della mostra La menzogna della razza, Bologna 1994, che ha rotto cinquant’anni di ghiaccio sul razzismo fascista) ho cominciato a mettere insieme un’antologia di brani e di immagini che inizialmente ho suddiviso in tre principali aree tematiche: articoli (pseudo) scientifici volti a dimostrare l’esistenza delle razze, monografie sui vari gruppi umani (etiopi, aborigeni, eschimesi, francesi inglesi, tedeschi, ecc.), articoli sugli ebrei (che nella La difesa della razza fanno categoria a sé).
L’idea era di lasciar parlare i testi, limitando i miei interventi a una funzione di semplice raccordo o di minima contestualizzazione. Ma ero perplessa. Gli articoli che leggevo erano molto rozzi da un punto di vista argomentativo, e anche a distanza di due generazioni non c’è gusto a discutere con un avversario che non si cura neppure di fare il verso ai princìpi della logica. In un certo senso, c’era più arte retorica nel modo in cui la rivista selezionava e montava le immagini (corredandole di didascalie sferzanti) che nelle parti scritte dai cosiddetti scienziati fascisti, e ciò suggeriva che La difesa della razza si rivolgesse a un lettore molto superficiale e ingenuo, o comunque a un lettore disposto a credere a tutto ciò che gli veniva propinato dall’alto.
Che senso aveva intestardirsi proprio sullo studio della La difesa della razza, giustamente considerata come spazzatura dalla totalità degli storici? Me lo sono chiesta molte volte. Forse non avrei scoperto nulla di nuovo sul razzismo fascista, ma in compenso mi appassionavo alle (italianissime) vicende del giovane Guido Landra, aspirante antropologo che, dopo aver dedicato i migliori anni della sua vita a eseguire tutte le direttive impartitegli dal suo Duce per avviare la campagna razziale in Italia, si ritrovò disoccupato (e senza prospettive di carriera) a 27 anni, essendosi nel frattempo fatto soffiare il posto da servitori altrettanto devoti, ma forse un po’ più scaltri di lui. Leggendo tra le righe, e talvolta le righe stesse, coglievo inoltre i sintomi di un nervosismo che evidentemente serpeggiava nella redazione di Piazza Colonna (sede romana della rivista), una tensione che esplode in un serrato fuoco incrociato tra Julius Evola, Guido Landra e Giorgio Almirante nei numeri di marzo, aprile e maggio del 1942.
I motivi per cui Landra, Almirante ed Evola si scagliarono addosso reciproche accuse di alto tradimento era, apparentemente, di ordine dottrinario. Landra e Almirante sostenevano a oltranza la linea di «razzismo della carne e del sangue», ansiosa di dimostrare che l’appartenenza a una razza fosse anzitutto un fatto biologico. Evola dal canto suo caldeggiava un razzismo esoterico e definiva la razza in termini astrattamente spirituali. C’era poi un terzo filone, inizialmente dominante, che era il nazional-razzismo di matrice cattolica; ma i suoi esponenti furono subito allontanati dal nucleo redazionale della La difesa della razza, salvo riapparire come convitati di pietra in alcuni articoli. Pare che il principale problema fosse che Mussolini non riusciva a decidere quale forma di razzismo gradisse di più, e quindi i capofila delle varie cordate lottavano per entrare nelle sue grazie. Quando era politicamente opportuno che l’Italia si mostrasse indipendente dalla Germania, Mussolini prediligeva il nazional-razzismo, che aspirava a fondere in un abbraccio ecumenico «l’idea di razza con l’idea di Roma». Quando ritenne che fosse giunta l’ora di stringere i rapporti con i nazisti, chiese assistenza ai biologi e agli esoterici – entrambi affiliati ai razzisti tedeschi.
La difesa della razza offre un ricco inventario di stereotipi razziali. Ce n’è veramente per tutti, dai riottosi zulù ai vendicativi albanesi, dai megalomani serbi agli spietati cinesi, fino ai vanagloriosi francesi e agli ipocriti inglesi, ed è sorprendente constatare come – mutatis mutandis – molte di queste rappresentazioni siano tuttora presenti nella nostra enciclopedia, sia pure in forma solitamente più allusiva. Mi sono perciò chiesta se, al di sotto delle differenze tra la retorica roboante del razzismo fascista e le varianti più prudenti della xenofobia attuale non vi siano dei meccanismi logici e psicologici comuni – un certo modo di atteggiarsi di fronte all’altro diverso da sé, di schernirlo, di marchiarlo, di intrappolarlo in ruoli stereotipati nel tentativo di esercitare un qualche controllo su di esso. Evitando di fare seriamente i conti con il nostro passato razzista, forse abbiamo perso un’ottima occasione per rivisitare criticamente certi certi pregiudizi i quali, di conseguenza, hanno continuato a circolare relativamente indisturbati anche dopo la guerra, riaffiorando di tanto in tanto nei contesti più disparati. Ciò se non altro confermerebbe uno stereotipo nazionale al quale pare che siamo particolarmente affezionati: quello degli italiani superficiali e menefreghisti.
Ma tornando alla La difesa della razza è piuttosto evidente che le monografie con cui Interlandi e i suoi sodali denigravano i diversi gruppi umani avevano il preciso scopo di far risaltare, per contrasto, le virtù di quella che essi amavano definire «la suprema razza ario-romana». Gran parte degli sforzi dei difensori della razza era rivolta al tentativo di dare un’identità forte a quell’incerta razza (o stirpe) italica che, secondo loro, andava potenziata eugeneticamente e protetta da ogni contaminazione esterna. Il problema però era sotto gli occhi di tutti: data l’enorme varietà dei tipi somatici che popolavano la penisola per effetto di secoli di innesti e mescolanze, la tesi dell’unità biologica degli italiani appariva quantomeno ardita. Come convincere gli italiani che appartenevano a un’unica razza, e che oltretutto si trattava di una razza biologicamente pura?
Entra in scena l’«Eterno Ebreo», che nella Difesa della razza ricopre il ruolo di nemico assoluto, da sempre intento a boicottare la pura razza ario-romana con le sue subdole manovre destabilizzanti. Scartabellando la rivista si intuisce subito che l’atteggiamento che i difensori della razza assunsero nei confronti degli ebrei è molto diverso rispetto a quello assunto nei confronti degli altri gruppi sottoposti al razzismo. In questo senso, il confronto con lo stereotipo del Negro (l’altro principale bersaglio della propaganda razzista) è particolarmente rivelatore: mentre il Negro suscitava le reazioni paternalistiche tipiche del razzismo coloniale, l’Ebreo – ovvero la maschera che gli antisemiti affibbiavano agli ebrei – provocava in loro un senso di inquietudine e di ribrezzo molto più difficile da definire.
La difesa della razza propone diverse rappresentazioni dell’Ebreo, le quali possono essere fatte risalire alle numerose sfaccettature della maschera ebraica. In effetti, gli articoli non aggiungevano molto ai pregiudizi correnti, limitandosi a mettere insieme un’accozzaglia di imputazioni infamanti tratte dalla secolare tradizione antigiudaica e antisemita. Tant’è vero che molto spesso era sufficiente agli autori di fare accenno allo stereotipo, senza preoccuparsi di giustificarlo con una parvenza di argomentazione logica. Evidentemente, queste strizzate d’occhio presupponevano che il lettore fosse predisposto ad accettare le accuse a scatola chiusa.
Ma se si assume un atteggiamento meno collaborativo nei confronti della rivista, ci si accorge come, nel tentativo di ricondurre le varie rappresentazioni dell’Ebreo (il capitalista, il comunista, lo studioso talmudico, e così via) a un’unica matrice comune, gli autori della Difesa della razza incappassero in innumerevoli contraddizioni. A seconda delle occasioni, infatti, l’Ebreo veniva accusato di essere ateo e/o fanatico religioso, capitalista e/o comunista, razzista e/o antirazzista, integrato e/o segregato, libidinoso e/o sessualmente esaurito, vile e/o orgoglioso, feroce e/o imbelle, rivoluzionario e/o tradizionalista, e via dicendo. Paradossalmente, la contraddittorietà di simili rappresentazioni non veniva avvertita come limite dello stereotipo, bensì come una prova inconfutabile della sua validità: se l’Ebreo appariva contemporaneamente razzista e antirazzista, comunista e capitalista, guerrafondaio e imbelle, ciò non significava che tra gli ebrei esistessero persone di tutti i tipi, e che pertanto lo stereotipo era inadeguato, ma – al contrario – la contraddittorietà veniva letta come un chiaro indizio della doppiezza del carattere ebraico. L’Ebreo levantino si finge antirazzista per affermare in modo occulto il proprio razzismo, concepisce il comunismo per disgregare la società civile e per allungare le proprie grinfie sul capitale dei gentili, finge di essere pacifista per condurre una spietata guerra sotterranea, e così via. Lungi dal sospettare che tale ambivalenza risiedesse nello sguardo dell’antisemita (al contempo affascinato e inorridito dalla figura chimerica dell’ebreo), gli autori della rivista trovarono nel mito della cospirazione ebraica la risposta alle contraddizioni generate dai loro stessi discorsi.