Le polemiche suscitate dalla dichiarazione del ministro della Salute Francesco Storace sulla possibilità di mettere mano alla legge 180 ripropongono annose controversie. Non è la prima volta che la legge sull’assistenza alle persone con disturbi mentali finisce sotto la luce dei riflettori. Fin dalla sua approvazione, avvenuta il 13 maggio 1978, la legge legata al nome di Franco Basaglia non ha avuto vita facile. Ha subìto attacchi di vario tipo, con tentativi di modifiche parziali ma anche di veri e propri stravolgimenti. In quasi trent’anni dalla promulgazione sono stati depositati sui banchi del Parlamento più di venti progetti di legge per la sua revisione.
Le parole di Storace si aggiungono pertanto a una lunga lista di manovre controriformiste che vorrebbero mettere in discussione la via italiana all’assistenza psichiatrica, indicata nel 2001 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come esempio da seguire in tutto il mondo. Malgrado proposte e iniziative di cambiamento, la 180 resiste. C’è pertanto da chiedersi come mai se ne ritorni periodicamente a discutere nonostante i riconoscimenti internazionali e nonostante sia chiaro che, laddove ci sono state la volontà politica e le risorse adeguate per la sua applicazione, la legge ha dimostrato di funzionare. Al di là delle ragioni legate all’opportunità politica, alle contingenze sociali e culturali, alla diversità delle opinioni medico-scientifiche, c’è probabilmente una chiave di lettura saldamente legata alla figura del padre della 180, alla sua storia, alla sua azione, alle sue pratiche: Franco Basaglia. Le ricorrenti polemiche sulla legge che porta il suo nome offrono l’opportunità di descrivere la forza di una proposta che non risponde a sollecitazioni di cronaca e a limitazioni storiche, ma che coglie ragioni esistenziali profonde e che forse proprio per questo ripropone contrasti immutati a distanza di tempo.
La storia comincia nel 1961, anno in cui Basaglia assume la direzione dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. Da allora, tra alterne vicende che vedono lui e il suo gruppo al centro di continue battaglie, il motivo costante che guida il suo lavoro è la soppressione del manicomio, traguardo raggiunto nel 1980 per la prima volta al mondo a Trieste, dove Basaglia aveva assunto la direzione dell’ospedale psichiatrico nove anni prima.
Basaglia fa comprendere che è possibile assistere le persone con disturbo mentale facendo a meno di un luogo in cui rinchiuderle ed escluderle dal resto della società. Prima di lui, in Francia e nei paesi anglosassoni medici aperti e controversi avevano già condannato da tempo l’uso della reclusione come terapia. Profondo conoscitore delle esperienze innovative maturate negli altri paesi, Basaglia aveva individuato il limite di questi tentativi nel fatto che si cercava di trasformare l’istituzione psichiatrica ma non di rinunciarvi. L’unico modo per riformare l’assistenza psichiatrica era abolire il manicomio per far esplodere «a livello sociale il problema della malattia mentale». E infatti, nella 180, alla soppressione degli ospedali psichiatrici si accompagna un totale rovesciamento del punto di vista rispetto alle leggi preesistenti. L’attenzione non è più rivolta a proteggere la società dal folle. La logica su cui fondare l’assistenza psichiatrica è la malattia, o meglio il trattamento della malattia e la necessità di dare risposte attraverso servizi adeguati che facciano mantenere al cittadino che vive l’esperienza di una crisi i legami con le persone e i luoghi che gli sono propri. Viene meno il concetto di pericolosità su cui tanta energia era stata spesa dai fautori della psichiatria manicomiale di matrice ottocentesca, viene spezzato il nesso tra follia e allarme sociale. Il folle rinchiuso in manicomio, fino a un istante prima classificato come pericoloso e irrecuperabile, diventa una persona, con la sua voce e la sua storia irriducibile a un’etichetta.
Basaglia svela «l’inganno della psichiatria», la sua dannosità come strumento di oppressione. Dimostra che c’è un altro modo di confrontarsi con la sofferenza e col disagio che non ha bisogno di manicomio. Il prezzo da pagare è la richiesta alla scienza psichiatrica di mettere radicalmente in discussione il proprio sapere e ai medici di rinunciare a parte del proprio potere.
Oltre al ruolo della psichiatria, nella storia del percorso che ha portato alla 180 ricorre un secondo importante elemento: l’immagine della follia. Basaglia aveva intuito che per riportare il malato nella società, con tutte le contraddizioni che comportava, era necessario modificarne la rappresentazione pubblica coperta da secoli di pregiudizi. Rappresentazione che voleva le persone rinchiuse nei manicomi violente e inguaribili.
La storia della psichiatria aveva sancito inoltre fino a quel momento l’impossibilità di una comunicazione reale tra pazienti, medici, infermieri. Basaglia credeva invece che nuove regole di comunicazione fossero necessarie per migliorare le condizioni di vita nel manicomio. È a partire dagli anni di Gorizia che Basaglia inaugura la cosiddetta Comunità terapeutica. Attraverso assemblee e incontri quotidiani i protagonisti della vita manicomiale si conoscono come mai era avvenuto in precedenza. Lo staff medico si sveste dei camici bianchi, segno di potere e di distanza. Gli internati si tolgono le divise. Si decide tutto insieme, dalle cure alla retribuzione del lavoro, dalle relazioni alla malattia.
Ma non basta: l’obiettivo più importante rimane la soppressione dell’ospedale psichiatrico e non una sua gestione più democratica. Per questo era necessario stabilire un nuovo rapporto con la società, cambiare l’immagine negativa delle persone con disturbo mentale tra le più diffuse nella percezione sociale. Basaglia si fa promotore, soprattutto negli anni triestini, di una serie di iniziative pubbliche che rivelano il suo intuito nel comprendere l’importanza della comunicazione. Nel manicomio entrano giornalisti, fotografi, documentaristi televisivi, che non solo denunciano l’impotenza e la violenza della scienza psichiatrica, ma che mostrano un mondo nuovo, in cui i malati raccontano le proprie storie ricche di significati comprensibili e non parole da imbrigliare in nuove norme interpretative. Attraverso la sua attività comunicativa, Basaglia non pone solo il problema del ritorno dell’internato psichiatrico nella società, ma chiede anche alla collettività al di fuori del manicomio di riconoscere le proprie necessità e miserie. Basaglia riattiva una comunicazione che si inserisce come fattore di novità nella trama del discorso scientifico, politico e sociale attorno alla salute mentale. Afferma che la possibilità della guarigione ha più un prezzo economico-sociale che scientifico. L’allargamento della comunicazione a e tra attori sociali diversi si rende allora necessaria per una democraticità estesa in cui la salute mentale non può essere esclusivamente lasciata in mano ai tecnici, ai medici, agli scienziati. È forse allora più chiaro come mai i tentativi di riforma della 180 da quasi trent’anni a questa parte vertano sostanzialmente sugli stessi punti: il trattamento sanitario obbligatorio e la necessità di strutture che più o meno velatamente richiamano la contenzione. Nelle procedure legate al trattamento obbligatorio sono contenuti infatti i principi più profondi dei cambiamenti introdotti da Basaglia, legati alla libertà, al consenso e a un pieno diritto di cittadinanza per le persone affette da disturbi mentali. Nelle proposte più retrive, invece, «il fascino discreto del manicomio» si ripresenta nel tentativo di ridurre la persona sofferente e la sua capacità di espressione. Laddove la legge ispirata a Basaglia cerca di modificare i metodi della cura cambiandone i luoghi, i controriformisti vogliono istituire moderni cronicari, nella migliore delle ipotesi più puliti e ordinati rispetto ai vecchi manicomi, ma pur sempre luoghi «opportuni» in cui sistemare le persone.
La tentazione rimane la stessa: innalzare mura, mettere barriere più trasparenti ma proprio per questo più solide. Non vedere, non dare spazio alla ricerca di percorsi di rimonta che non siano solo medici, così come espresso in molte proposte contro la 180, sono segni che vogliono confermare un’immagine della persona affetta da disturbi mentali ancora confusa con la pericolosità, con l’inguaribilità, con l’inevitabilità dell’esclusione sociale.