Quel bene speciale che si chiama contratto

“Il contratto. Quello mica ce l’hanno tutti”. Dice una cosa che forse è più azzeccata di quanto non sembri, Tino Magni. Nel giorno del centenario dei metalmeccanici della Fiom-Cgil, il segretario generale della Lombardia ha deciso di introdurre così il convegno “Da un secolo all’altro, attraversando i confini”. Con lui i rappresentanti sindacali di mezzo mondo, riuniti alla Camera del lavoro di Milano, a spiegare cosa sia diventato l’operaio del terzo millennio.
Il contratto, insomma. La battaglia dei paesi con una storia sindacale più breve si gioca su questo terreno. Di più, perché spesso avere un contratto nazionale collettivo di lavoro è praticamente impossibile. Di volta in volta regimi più o meno autoritari hanno imposto nei propri paesi una contrattazione che al massimo si limita a quella aziendale o locale. Una prospettiva che agli italiani diventa ogni giorno più pericolosa, visto cosa ripete da tempo Confindustria.
“Nel nostro paese è possibile solo la contrattazione aziendale, voluta a suo tempo dalla dittatura”, racconta Sung Hyun Mun, presidente del sindacato metalmeccanico sudcoreano Kmwf. Così tutto diventa più difficile creando una situazione oscura per i lavoratori asiatici. Repressione, tagli pesanti all’occupazione, divieto di fatto di riunirsi per difendere i diritti dopo un’ampia e selvaggia campagna di privatizzazione. Perfino una discussione sulla cassa integrazione trova il suo portavoce padronale nelle forze armate. “Abbiamo un presidente che ha ricevuto il Nobel per la pace – incalza Sung Hyun Mun – eppure quando abbiamo rifiutato la cassa integrazione con dei sit in pacifici la polizia ha avuto l’ordine di colpirci”. Visi brutalizzati dalle botte, schiene coperte di sangue. Le gigantografie che il sindacalista asiatico srotola sono un pugno allo stomaco. Ora la partita si chiama Daewoo e la tensione è alle stelle.
Vai dall’altra parte del mondo e ti ripetono le stesse cose. I contratti nazionali sono un miraggio per i lavoratori, la risposta alle richieste di diritti è sempre nella forza e nel sangue. “Il nostro modello contrattuale si lega al vostro Ventennio fascista. Solo contratti locali e noi invece vogliamo quello nazionale”, dice, con una voce rotta dall’emozione, Heguilberto Guilba, presidente dei metalmeccanici brasiliani della Cut. Che aggiunge: “Non abbiamo mai visto un periodo così nero per il lavoro in Brasile”. Povertà, sfruttamento, corruzione. Le cose, ai tempi della globalizzazione, funzionano così. I nomi delle società diventate potentissime multinazionali sono sempre gli stessi, incassano i vantaggi e lasciano sul terreno la miseria. “La Fiat ci affligge con il suo atteggiamento – avverte il sindacalista brasiliano che traccia il profilo di uno dei peggiori rapporti sindacali con le società straniere – hanno perfino degli accompagnatori. Aspettano ai cancelli l’inizio del turno, hanno l’incarico di seguire e controllare tutto il giorno gruppetti da quindici operai ciascuno”. E’ il metodo Fiat per controllare il lavoro in fabbrica, per rendere più difficile l’esercizio dei già pochi diritti sindacali. Una partita facile, che si gioca tutta tra le mura dell’azienda, perché la contrattazione finisce lì. Heguilberto Guilba mastica amaro: “Il risultato è vergognoso: in Brasile abbiamo i salari più bassi di tutto il Sudamerica. E nel nostro continente, tra paese e paese, ci sono già delle differenze di trattamento abissali. Le 40 ore settimanali di lavoro sono un sogno, e quasi 4 milioni di bambini costretti a lavorare portano via il lavoro agli adulti”. “Vogliamo il lavoro per i padri di questi bambini, vogliamo impedire che le donne a 25 anni siano già vecchie. Per farlo ci vuole un nuovo modello sindacale che imponga una contrattazione nazionale”.
Una prospettiva che parla chiaro, perché dice che la globalizzazione del lavoro non è ancora certo quella dei diritti. Anzi, le due cose si scontrano, come ai rappresentanti metalmeccanici del Vecchio Continente capita più volte di avvertire. E che forse Reinhard Kuhlmann, segretario generale della Federazione europea dei metalmeccanici, coglie, quando dice che “anche noi vogliamo la globalizzazione. Ma quella dei diritti delle donne,d egli uomini, del lavoro. Contro la dittatura economica che soffoca la società civile”.
E che la battaglia per la democrazia possa avere al centro il sindacato, lo spiega molto bene Silumko Nondwagu, presidente del sudafricano Numsa. Anni di battaglie contro il regime che sono stati anche di lotte sindacali, “perché l’apartheid è stato anche un sistema di sfruttamento della fora lavoro voluto dai bianchi e dalle grandi imprese”. Una battaglia che in Sudafrica non è per niente finita, “visto che con la scusa della globalizzazione le multinazionali sono partite all’attacco dicendo che ora i lavoratori hanno troppi diritti”.