Quei 70 economisti “desaparecidos” perchè non riconoscono il debito

Che in questi primi mesi del governo Prodi l’unica vera opposizione – “non formale, efficace, insomma quella che fa davvero male” – sia arrivata dagli economisti è certamente una notizia e bene ha fatto Lucia Annunziata a rimarcarla, sulla Stampa di venerdì 13 ottobre. Che però gli unici economisti ad opporsi alla manovra e, più in generale, al disegno di politica economica di cui essa è espressione siano gli economisti di ispirazione “bocconiana” è un falso grossolano, che evidenzia un problema non secondario che affligge l’informazione e, in particolare, l’informazione economica.
I lettori di questo giornale sanno bene che non sono soltanto Alesina e Giavazzi, Boeri e Rossi, Messori e Spaventa ad aver mosso critiche all’impianto della Finanziaria: nel luglio scorso, infatti, oltre settanta economisti hanno sottoscritto un appello argomentato volto a impugnare l’assioma di fondo su cui la manovra è costruita, vale a dire che l’abbattimento accelerato del debito pubblico sia una necessità oggettiva e non invece una (deprecabile) scelta politica. E’ infatti da questa scelta che scaturisce l’elevatissimo ammontare di questa manovra (seconda, in termini assoluti, solo all’inarrivabile Finanziaria del 1992), ed è questa scelta responsabile dell’inasprimento complessivo del carico fiscale di cui tutti adesso si dolgono e che certamente già dall’anno prossimo contrarrà la dinamica della crescita.

Disgraziatamente, a parte i lettori di questo giornale, sono davvero in pochi a conoscere i contenuti di quell’appello (ora disponibile all’indirizzo: www. appellodeglieconomisti. com). Nei suoi confronti, infatti, è scattata una delle tipiche reazioni difensive proprie della dinamica comunicativa, vale a dire la “disconferma”.

La disconferma è una reazione diversa dalla negazione: chi nega, infatti, riconosce il proprio interlocutore e oppone alle sue altre argomentazioni. Chi disconferma, invece, è come se dicesse al proprio interlocutore: “tu non esisti”. E’ una reazione certamente frustrante per chi la subisce, ma molto spesso è sintomo di assenza di argomenti, cioè di debolezza.

La storia del pensiero economico ce ne offre vari esempi: basti ricordare che, dominante il “keynesismo idraulico”, Hayek e Friedman ebbero per interlocutori ristrette cerchie di iniziati, salvo poi imporsi all’attenzione quando la stagflazione degli anni Settanta chiarì che i fatti si erano completamente mangiati la poca carne della “sintesi neoclassica” di Samuelson e Solow, fino a ridurla a un ectoplasma.
Così accade oggi. Le argomentazioni volte a sostenere che il debito pubblico non è un “onere reale”, né per le generazioni presenti né per quelle future, e che si potrebbe stabilizzarne la dinamica in rapporto al pil senza tema di “sanzioni” dei mercati e/o delle istituzioni europee non vengono contestate: semplicemente, non si prendono in considerazione. Non lo fanno gli accademici, perché si fanno forti delle (false) evidenze offerte da un’ortodossia che pure è soltanto una complicata sofisticazione delle più trite banalità del senso comune in materia di debiti, moneta, inflazione; non lo fanno i giornalisti (e i giornalisti economici, innanzi tutto), perché partecipano – per insipienza, convenienza o semplicemente ignoranza – di quella stessa ortodossia.

Ovviamente, al fondo c’è una gigantesca questione politica: se è vero che il debito pubblico non è nient’altro che una speciale forma di “moneta”, in grazia della quale la collettività è posta in condizione di “anticipare” il livello e soprattutto la composizione del reddito (invece che limitarsi a prelevare e ridistribuire reddito già prodotto), stabilizzare il debito in un intorno dei valori correnti significa stabilizzare la misura dell’intervento pubblico – e dunque della produzione di diritti – in rapporto al reddito sociale complessivo. In altre parole, significa abbandonare ogni ulteriore velleità di privatizzare patrimonio industriale, sanità, scuola, pensioni, servizi e perfino riaprire una discussione critica su ciò che è stato fin qui privatizzato.

Non è certo casuale, dunque, che nei confronti dell’appello degli economisti sia scattata una vera e propria procedura d’esclusione: i suoi contenuti non sono compatibili con l’ordine del discorso dominante. Meno comprensibile (e certo più preoccupante) è che il disinteresse alligni anche dalle parti della sinistra cosiddetta “radicale” o addirittura “antagonista”: per quanto “partecipato” possa essere, un bilancio che non sia libero di decidere la misura del proprio ammontare non può far altro che ridistribuire briciole. E contrariamente a quanto auspicato da un manifesto che si vede nelle città in questi giorni, non è detto che siano quelle che cadono dal tavolo dei ricchi.