Quattro ragioni per dire no alla missione in Afghanistan

Le ragioni per cui non possiamo votare il rifinanziamento della missione militare in Afghanistan sono troppo evidenti ai lettori di questo giornale per essere pedissequamente ripetute. Tuttavia, nel momento in cui questa vicenda sta per diventare la questione più spinosa per la sinistra radicale nel suo rapporto con il governo, vale la pena ripercorrere i punti salienti di quella missione militare per provare a ribadire le ragioni di una posizione certamente difficile ma irrinunciabile.
Innanzitutto va ricordato che la missione nasce in seguito al primo atto di guerra globale preventiva dell’amministrazione Bush dopo gli attentati dell’11 settembre. Fu “Enduring Freedom”, infatti, la prima prova generalizzata della capacità degli Usa di portare la guerra molto lontano dai confini di casa propria in funzione di un’azione preventiva e dissuasiva rispetto al terrorismo. C’è quindi un antefatto politico che informa tutti gli atti successivi che non possono essere letti e giudicati a prescindere dall’evento originario che li ha determinati. L’Afghanistan è diventato teatro di guerra mondiale in seguito a una precisa scelta dell’amministrazione di Washington che ne ha fatto l’obiettivo privilegiato della sua campagna contro il terrorismo. Ma a questo proposito non vanno dimenticati due elementi chiave che stanno, uno a monte e l’altro a valle, dell’intervento Usa. Il primo è che l’azione furibonda contro il regime talebano ha messo la sordina al sostegno decisivo portato dagli Stati Uniti a quello stesso schieramento in funzione anti-Urss. Erano gli anni 80 gli anni in cui i leader talebani venivano ricevuti dal presidente Reagan a Washington come “combattenti per la libertà”. Il secondo è che dopo il violento rovesciamento del regime di Kabul il terrorismo non è diminuito nel mondo, l’Afghanistan non è un posto più sicuro, la produzione di oppio è aumentata, la condizione delle donne in quel paese non è mutata. Il bilancio non può che essere dunque negativo e non può che interrogare le responsabilità politiche primarie che stanno all’origine della missione militare. Che riguardano le scelte strategiche degli Usa e dei loro alleati – costretti spesso a seguire supinamente – funzionali a un allargamento del loro raggio d’azione nel cuore caldo del pianeta, in quell’est asiatico sempre più terreno di scontro con la Cina neocapitalista e sempre più custode delle risorse energetiche fondamentali. Senza questo passaggio non si capisce perché le lancette di guerra degli Usa sono spostate a est a detrimento di un “intervento umanitario” che invece sarebbe necessario in Africa o in altre parti del mondo.

Il secondo aspetto riguarda quindi il bilancio delle missioni militari. E’ ora di farlo davvero e di farlo con cognizione di causa guardando alle reali motivazioni che muovono la Casa Bianca, certamente scossa dagli attentati dell’11 settembre ma altrettanto certamente motore di una strategia di dominio imperiale ampiamente documentato all’interno dello stesso establishment statunitense. E il bilancio non è esaltante. E’ di pochi giorni fa la notizia di una Somalia in balia di una componente islamica che si appresta a introdurre la sharia, esito di una ribellione identitaria e reazionaria contro la presenza militare occidentale; in Kosovo si annunciano nuovi scontri tra serbi e albanesi, l’Iraq è sotto gli occhi di tutti e neppure Timor Est, che ha “beneficiato” di un intervento di peace-keeping dell’Onu è riuscita a risollevarsi e a uscire da una situazione drammatica. E’ il caso di sostenere senza esitazione che la strategia dell’intervento militare non pacifica ma aggrava le situazioni e che contribuisce a scavare un solco costante tra popolazioni interessate agli interventi e mondo occidentale. Da questo punto di vista, le missioni militari sono il braccio armato dello scontro di civiltà che alimentano coscientemente, o anche inconsapevolmente in alcuni casi, senza prospettare per il pianeta un futuro più sicuro. Soprattutto quando si presentano come “occupazioni” del paese in oggetto com’è manifestatamente in Iraq e com’è anche in Afghanistan, in particolare in relazione all’assenza di un governo nella pienezza dei poteri e delle strutture necessarie ad esercitare la propria autorità.

Nel caso specifico afgano c’è poi un ulteriore elemento di complicazione che è dato dal comando Nato della missione. I sostenitori dell’intervento sostengono che proprio i doveri di partecipazione all’Alleanza Atlantica impongono di mantenere la missione militare in Afghanistan; in realtà è proprio quel comando, innaturale per un’organizzazione come la Nato, a gettare un’ulteriore ombra sulla presenza italiana. Certo, non ci sfugge che proprio nel caso afgano l’Alleanza Atlantica “ha costituito una delle più importanti pietre miliari della sua storia del dopo Guerra Fredda” per citare le parole di Ruiz Palmer, direttore della sezione pianificazione nella Divisione delle operazioni Nato, volendo dire che con quella missione la Nato si è affrancata dal suo trattato originario e ha potuto sperimentare la possibilità di “effettuare operazioni militari senza limiti geografici” (sempre Ruiz Palmer). Insomma, un gendarme mondiale che opera sulla base di valutazioni geopolitiche, economiche, di controllo delle risorse e di competizione internazionale, in luogo di considerazioni umanitarie e di solidarietà tra i popoli. Non si tratta di ricorrere all’antica, e tuttora valida a mio giudizio, critica alla Nato ma semplicemente di segnalare la necessità di una posizione critica da parte del nuovo governo, e del suo ministro della Difesa, rispetto a questo progressivo cambiamento di ruolo.

Viene qui, infine, un ultimo punto di merito che sostanzia la differenza principale esistente oggi all’interno della coalizione di governo. Si tratta del cosiddetto multilateralismo propugnato dall’Ulivo e in particolare da Prodi che accetta e sostiene operazioni militari internazionali quando queste hanno il placet di tutta la cosiddetta comunità internazionale e contrasta invece quelle a dominazione Usa. Si tratta di una logica concorrenziale tra Usa ed Europa che punta a una sorta di “concertazione transatlantica” – sia a livello bilaterale che nelle sedi sovranazionali come l’Onu, il Wto, la Banca mondiale – con conseguente spartizione degli oneri e dei benefici. Una logica interna alla visione imperiale del pianeta e che non ha connessione, se non ideologica, con un’altra idea dell’intervento umanitario che per essere tale dovrebbe fare leva sulle organizzazioni non governative, sulla solidarietà dal basso, su un ruolo completamente rivisitato dell’Onu e delle organizzazioni internazionali. Talmente è così che ancora oggi, mentre migliaia di militari occidentali occupano territori a loro completamente estranei, nessun’opera significativa di soccorso e di aiuto è stata portata a quei paesi devastati dallo Tsunami!

La discussione sull’Afghanistan è certamente difficile ma attiene a una divergenza presente all’interno dell’Unione e a due impostazioni molto diverse – manifestatesi in occasione dell’Afghanistan o del Kosovo – che è molto difficile nascondere. Così com’è difficile comporre una mediazione capace di produrre fatti concreti immediati. Per questo credo che non sia possibile dare l’assenso a questa missione anche se questa posizione deve conciliarsi con l’indisponibilità a provocare la crisi di governo e il ritorno delle destre. Ma questa quadratura del cerchio deve realizzarla Prodi, non può essere scaricata su chi del no alla guerra “senza se e senza ma” ha fatto non solo una bandiera ma una vera e propria identità.