Quattro cose semplici

Per andare oltre il dialogo stentato della sinistra radicale

Premetto che la priorità è cacciare l’attuale governo. I danni che esso ha fatto e farà non erano stati immaginati. Esso demolisce tenacemente tutto ciò che frena la proprietà lecita e illecita, considera un fastidio il parlamento e la divisione dei poteri, umilia i lavoratori, dal ricercatore al manovale, dà corda al razzismo, sollecita il peggio del corpo di una nazione. I guasti già fatti sono superiori al previsto. E’ stata una cantonata lusingare nel 2001 l’astensionismo. Che ci sia dunque già un accordo fra i partiti dell’opposizione moderata e radicale per battere il cavaliere è una buona cosa. Che non si sia andati oltre un accordo «contro» non lo è, ma bisogna riconoscere che un programma comune tra coloro che formano la Gad non va da sé né, a parer mio, la sua mancanza è impediente: per battere la Casa delle libertà si va anche gratis.

Più discutibile mi pare la mancanza di un programma comune delle sinistre radicali. Le uniscono l’insofferenza per Berlusconi e la diffidenza per i moderati della Gad, sanno che occorrerà incalzarli (e non è appassionante se da dentro o da fuori del governo) ma per farlo occorre avere idee chiare. Da dove viene dunque la stentatezza del dialogo?

In parte dalla composizione del 13,5 per cento: i partiti che l’hanno raccolto (Prc, Pdci, Occhetto e Verdi) sono frutto di scissioni ancora dolenti. I movimenti confluiti nel voto non hanno una rappresentanza evidente. E una grande problematicità ha investito negli anni novanta le categorie della sinistra. Il paradigma della lotta di classe è dato per spacciato non solo dai moderati ma anche da settori radicali, o per rassegnazione o per diffidenza di quel che sono stati i socialismi reali. Oggi il «lavoro» deve difendersi oltre che dal padronato, dalla propria filiazione (le sinistre deluse e quelle incantate da un capitalismo dal volto umano) nonché dai conti che gli chiedono i movimenti no global o il femminismo. E non sono conti da poco, si tratta di paradigmi insofferenti l’uno dell’altro: chi privilegia il conflitto lavoro/natura tende ad azzerare quello della lotta di classe perché «sviluppista», chi privilegia il conflitto differenza fra i sessi considera patriarcali gli altri due. E pesano i tentativi di incontro mancati. Non reggerà nessun accordo del 13,5 per cento che non affronti la questione.

La crisi di rappresentanza viene anche dal mutare del bisogno politico. Accanto alla fin troppo sventolata crisi della «politica» cresce infatti una domanda di politica come uscita dall’impotente orizzonte privato – chiunque abbia frequentato un’assemblea non di partito lo ha avvertito. E’ una domanda ansiosa e diffidente che spesso chiede un riavvicinamento del fare politico all’esperienza diretta della persona, in forme non ben definite – si vogliono dal basso ma spesso cedono a una scorciatoia elettorale, perlopiù a livello locale. Dove chi si azzarda viene assimilato o marginalizzato, la macchina essendo rodata e sapiente.

Da questo bisogno che si presenta innocente viene la domanda contraddittoria ai partiti pur poco amati – smettete di azzuffarvi per i posti in lista (e pensare che la personalizzazione dei candidati era apparsa più credibile dell’astrazione delle sigle) e decidete in fretta quattro cose semplici e che ci emozionino.

Non credo che questa domanda vada troppo lusingata. La società civile non è innocente. Berlusconi e il moderatismo non si sono imposti con un colpo di stato, sono l’espressione di delusione, insicurezze, approssimazioni, egoismi, «prima il figlio mio» e «meglio un uovo oggi che una gallina domani» presenti nel tessuto sociale e coltivati con maestria. Specie oggi che esso è caratterizzato dalla proprietà vincente e dalla sua spinta a fare di tutto e di ognuno assieme una merce e un consumatore. La pretesa di andare a un cambiamento attraverso poche scelte attraenti che non esigano sacrifici da una parte e dall’altra è un non senso o butta in corporativismo. In una società sviluppata la identificazione di un bene comune non è mai semplice e tantomeno in un tessuto privatizzato e individualizzato e in parte corrotto come quello retto dal mercato e dai consumi.

Per esempio. Tutti a sinistra sono sinceramente contro la guerra, ma impedirla significa riguadagnare la maggioranza degli italiani all’idea che la guerra non è mai lecita – non lo era contro Milosevic nel Kosovo non lo è contro il cosiddetto terrorismo internazionale. E che lo scontro di civiltà è l’ideologia con la quale gli Stati Uniti tentano oggi di imporre il loro ordine sul resto del mondo e produce, non solo incontra, resistenze arcaiche e crudeli come il terrorismo. Che il conflitto israelo-palestinese è precipitato nel terrore di Tsahal e dei kamikaze per l’incapacità di imporre a Israele il rientro nei confini del 1967 e assieme garantirle sicurezza. Insomma, occorre ragionare sulle cause prime da rimuovere, sui motivi della loro forza e su questo manca un’opinione condivisa nella Gad e anche fra tutti coloro che detestano guerra e terrore ma si chiedono se si può o è sbagliato essere antiamericani, o se l’Onu va difesa, cambiata o mandata al diavolo.

Analogamente tutti sono per il lavoro, ma non tutti, anzi pochissimi, concordano sulle ragioni per cui oggi è così precario. Un conto infatti è affermare che l’occupazione è un diritto e lo stato è tenuto a garantirlo, un altro che va assicurata libertà incontrollata al movimento dei capitali, concorrenza, competitività, flessibilità della manodopera, rinuncia all’intervento pubblico nella speranza che in questo quadro ciascuno individualmente riesca a trovare un impiego, contrattare il suo prezzo e mantenerlo. Non senza che i migranti che approdano in Italia senza essere chiamati siano rimandati alla fame di provenienza.

E’ questa seconda direzione che è stata del governo di centrosinistra ma anche di una parte della sinistra radicale, secondo la quale più che per l’occupazione bisogna battersi per quel super ammortizzatore sociale che sarebbe il salario minimo garantito. Ma anche chi è d’accordo che qui si tratta di tornare alle conquiste sociali degli anni sessanta e settanta non ha definito come, con quali alleanze, con quali rapporti con l’Europa – che impone nella sua Carta la seconda strada – e quindi con quale proposta concreta di politica estera e di politiche economiche. Eppure è il punto cruciale e più bruciante. Alla stessa stregua, pochi hanno il coraggio di dire che più welfare significa più intervento pubblico, più entrate per lo stato, le regioni e i comuni, dunque non meno tasse ma più tasse sui redditi meno bassi e sulle rendite da capitale. E’ più facile trovare nell’opposizione chi propone di ridurre la spesa pubblica del 10 per cento sul pil.

Non si può essere d’accordo con tutti. Ma neanche salvarsi l’anima con la mera testimonianza: finché regna Berlusconi nulla si può fare, dopo tutto sarà possibile e necessario. Necessario ma non semplicissimo. Perché dovrebbe essere più semplice aggiustare un paese che un condominio?

Nel proporre l’incontro del 15 gennaio non abbiamo pensato a una festa, una passerella, un felice incrociarsi di slogan. Queste colonne aspettano chi scriva il che cosa e il come si deve fare più di quanto non sia stato scritto finora. Non sarà mai troppo presto.