“Lo stile di vita statunitense non è in discussione” disse nel 1991 George Bush senior per giustificare la necessità della guerra nel Golfo, spinto (anche) dalle lobby petrolifere texane. Bush junior – dopo aver recentemente stracciato il Protocollo di Kyoto sul clima – pare seguirne le pesanti orme.
Quella way of life e quella profonda commistione fra affari e politica fanno infatti degli Stati uniti il paese dei tristi primati ambientali. Per mantenere i quali il paese disattende sistematicamente i tentativi di regolamentazione ambientale internazionale, dal clima alla biodiversità.
Da soli, gli Usa sono responsabili di un quarto dell’effetto serra, spia di una pesantezza ecologica globale, di una minore efficienza energetica rispetto agli altri paesi “sviluppati”, di un modello agroalimentare funesto, di una tendenza spiccatissima e purtroppo imitata allo spreco: iperacquisti, velocissimo ciclo di vita dei prodotti, iperproduzione di rifiuti (pro capite tre volte quelli italiani), delega alle macchine di moltissime funzioni manuali e pedestri. Insomma, come sostiene il Third World Resurgence, “il modello Usa è semplicemente insostenibile: con il 4,5% della popolazione mondiale, gli statunitensi consumano il 40% delle risorse del mondo e ne recuperano solo l’1%”.
Alcuni esempi? Gli Usa sono il primo paese al mondo, insieme al Canada, per consumo di energia pro capite (9,73 Tep – tonnellate equivalenti di petrolio all’anno; la quota per i 48 paesi più poveri è solo dello 0,3). Un americano necessita in media di tanta energia quanto tre svizzeri, quattro italiani, 160 tanzaniani e 1.100 ruandesi. Non solo. Gli statunitensi consumano il 25,5% di tutto il petrolio prodotto nel mondo. A questo proposito, spiega il rapporto World Watch Institute 1999 che “se tutto il mondo consumasse tanto petrolio quanto gli Usa, ne occorrerebbero 360 milioni di barili al giorno, mentre se ne estraggono in tutto 67 milioni”. Il consumo di petrolio è aumentato negli Usa, tra il 1989 e il 1999, dell’11% salendo a 883 milioni di tonnellate annue. Nello stesso periodo, però, la produzione petrolifera nazionale è scesa di oltre il 17%. Gli Usa, di conseguenza, consumano circa il 60% in più di quanto producono e sono i maggiori importatori petroliferi al mondo, con 521,5 milioni di tonnellate annue.
Pur essendo la patria della tecnologia, non deve sorprendere che gli Usa siano al 32esimo posto quanto a efficienza energetica. Ovvero: per produrre una unità di prodotto interno lordo, negli Usa (e in Canada) si utilizza il doppio dell’energia utilizzata, per esempio, in Francia e in Italia. Ciò si somma, ovviamente, a una propensione individuale e collettiva allo spreco, frutto dei bassi costi dell’energia: “Negli Stati uniti un buon livello di vita si identifica con la presenza di un’auto sportiva sulle tre presenti in famiglia – scrive David Molin Roodman in The Natural Wealth of Nations, World Watch Institute 1998 – qui le emissioni di anidride carbonica pro capite sono 27 volte maggiori della quota pro capite che sarebbe sostenibile in un mondo più equilibrato”.
Particolarmente insostenibili anche i quasi 100 milioni di auto ad aria condizionata; per andare da una città all’altra, distanti qualche centinaio di chilometri, l’uso dell’aereo (in assoluto il più inquinante ed energivoro dei mezzi di locomozione) è la norma.
E vogliamo parlare dell’aspetto alimentare? In un mondo che si nutrisse secondo l’alimentazione statunitense standard, ci sarebbe cibo solo per due miliardi di persone. Gli Usa sono infatti i maggiori divoratori di carne del pianeta: circa 100 kg pro capite l’anno, contro gli 80 – non pochi anche quelli – della media europea, e ovviamente i due di un paese come l’India. Ciò significa che la dieta americana standard (vivamente sconsigliata da molti nutrizionisti, così ricca com’è di alimenti animali, povera di fibre e gravata da 70 chili pro capite di dolcificanti l’anno) comporta un consumo medio di 800 chili di cereali l’anno, utilizzati al 70% per nutrire gli animali da carne, da latte e da uova. Per un confronto, la dieta mediterranea ne richiede 400 e una dieta vegetariana ne richiederebbe 200.
Del resto è proprio dagli Usa che l’Europa ha comprato le prime farine animali, all’inizio degli anni 60. Così come – grazie agli accordi di Blair House – è dagli Usa che importa enormi quantità di soia, elemento che ha contribuito al fatto che la zootecnia europea si slegasse dal territorio e cominciasse a industrializzare gli allevamenti. Quanto agli ogm – organismi geneticamente modificati – sono il governo e le multinazionali Usa a guidarne l’affermazione mondiale, in barba agli altrui timori e resistenze come dimostrato (anche) dai recenti “scandali” italiani legati alla multinazionale Monsanto. Del resto è il gruppo di Cairns (Usa in testa, insieme agli altri grandi esportatori di cereali) a bocciare le proposte di protezione dell’agricoltura contadina nel Sud del mondo contro l’invasione delle derrate prodotte a basso costo.
Ma i tristi primati non finiscono qui. Secondo dati Onu, un abitante degli Stati uniti consuma in media 600 litri di acqua al giorno; un europeo è a quota oltre 200 e un malgascio a quota 5). Anche l’eccesso di rifiuti prodotti è un triste record targato Usa: secondo il Rapporto sullo sviluppo umano dell’Undp, nel 1998 “la media individuale di rifiuti urbani prodotta in Italia è stata di 470 kg a testa annui, rispetto ai 430 dell’Unione europea e ai 730 della media statunitense”. Mentre il rapporto del 2000 del World Watch Institute indica come gli Usa consumino il 29% della carta prodotta nel mondo.
Sommando tutti i consumi diretti e indiretti di energia che questo stile di vita comporta, si capisce perché le emissioni annuali pro capite di anidride carbonica negli Stati uniti siano pari a 20 tonnellate, contro le 7,4 dell’Italia e le 0,2 (cento volte meno) di moltissimi tra i paesi poveri.
Globalmente parlando, il cittadino statunitense medio ha l'”impronta ecologica” (definizione che misura l’efficienza ecologica di uno stile di vita) peggiore del mondo; misurando le categorie alimenti, abitazioni, trasporti, beni di consumo, servizi, risulta un'”orma” pari a 6,2 ettari pro capite, mentre l'”impronta” media italiana è pari a 3,11 ettari e quella media del mondo è pari a 1,8 ettari.
Non stupisce, dunque, se gli Stati uniti mantengono l’ancor più triste primato delle malattie dell'”eccesso”: un bambino su cinque soffre di obesità, mentre il 30% di tutta la popolazione è obesa. Nel Paese sono presenti neoplasie che hanno tassi di crescita da cinque a trenta volte più alti che nel resto del mondo. Eppure McDonald’s apre cinque nuovi ristoranti al giorno. Anche se tra questi ben quattro sono quelli inaugurati fuori dagli Usa.