Venerdì 20 aprile, su La Sette , durante la trasmissione “Otto e mezzo” di Ritanna Armeni e Giuliano Ferrara, si è verificato un evento, televisivo e sotto qualche aspetto persino politico. L’economista marxista Emiliano Brancaccio, dell’Università del Sannio, ha messo nell’angolo il ben più noto professor Francesco Giavazzi, docente presso la Bocconi di Milano e presso il Mit di Boston, guru dell’ortodossia liberista e soprattutto autore, sul Corriere della Sera , di innumerevoli prediche contro la sinistra “che non si rinnova”.
Argomento della puntata era il caso Telecom e, più in generale, la convenienza per l’Italia di attirare capitali esteri. Lo spunto era la “sculacciata” – come l’ha definita Ferrara – che il giorno prima era stata impartita dall’ambasciatore Usa al governo italiano, reo a suo avviso di aver contrastato l’acquisizione di Telecom da parte della At&T. Tutto sembrava preannunciare la più tipica vulgata televisiva: un governo di centro-sinistra apparentemente fedele alla legge del mercato, che però rivela nei momenti decisivi la sua vera anima interventista, statalista e magari persino un po’ comunista. Un governo che per questo merita di essere condannato.
Le premesse insomma c’erano tutte per la solita tiritera liberista. Ma alla fine le cose sono andate in modo completamente diverso. Grazie alla forza delle sue argomentazioni Brancaccio è riuscito a ribaltare l’esito della discussione. Giavazzi aveva infatti esordito dichiarando che il problema non è il passaporto del futuro proprietario di Telecom, ma la sua capacità di rendere efficiente l’azienda. E per fugare i timori di licenziamenti dopo una eventuale acquisizione americana, ha ricordato il caso del Nuovo Pignone, un’impresa nazionale che dopo la cessione a un compratore Usa ha visto aumentare gli investimenti e l’occupazione. Ma Brancaccio ha replicato che senza un forte intervento delle autorità pubbliche, “il capitalismo italiano è spacciato”. E le massicce acquisizioni da parte di stranieri costituiranno un destino ineluttabile, non solo per noi ma per tutta l’area dell’Euro-mezzogiorno. L’Italia e le altre periferie del continente scontano una minore concentrazione dei capitali, una minore produttività e quindi una tendenza strutturale ad accumulare disavanzi con l’estero. In assenza di un vasto e mirato intervento pubblico, che permetta di ridurre i divari tra le periferie e i centri dello sviluppo capitalistico, le prime diventeranno per forza “terra di conquista” da parte dei secondi e al massimo sub-fornitrici a basso costo del lavoro. Con buona pace del professor Giavazzi, allora, il caso del Nuovo Pignone non è affatto emblematico: nella eventualità di una acquisizione americana, le migliaia di lavoratori Telecom attualmente impegnati nelle attività di ricerca e sviluppo diventerebbero immediatamente eccedenti, e il loro destino sarebbe segnato. Nell’ottica di Brancaccio l’intervento statale diventa quindi fondamentale per due motivi. In generale, perché senza una precisa iniziativa pubblica di riequilibrio industriale, il divario tra centri e periferie è sempre inesorabilmente destinato ad acuirsi. Nello specifico, perché laddove non ci siano le condizioni politiche per la ri-nazionalizzazione, è legittimo che le autorità scelgano almeno l’acquirente con il quale si possa più facilmente trattare sul tema cruciale della riorganizzazione della catena produttiva e della relativa distribuzione del valore aggiunto.
Il richiamo, da parte di Brancaccio, ai vantaggi dell’intervento pubblico ha immediatamente suscitato la reazione di Giavazzi. Questi ha in sostanza difeso le politiche di privatizzazione e ha tenuto a precisare che il ruolo dello Stato è importante, ma solo in quanto “regolatore” e non in quanto “proprietario”. Il professore del Mit ha sostenuto infatti che le autorità garanti della concorrenza e del mercato sono in grado, da sole, di assicurare il corretto funzionamento del sistema, senza bisogno di ricorrere alla ormai “superata” proprietà pubblica dei mezzi di produzione. Ancora una volta, però, Brancaccio ha avuto buon gioco nel rispondere. Sulla privatizzazione, egli ha messo in evidenza che esiste ormai in ambito accademico una vasta e autorevole letteratura, in grado di mostrare chiaramente che l’orgia delle privatizzazioni degli anni 80 e 90 ha prodotto, nella stragrande maggioranza dei casi, effetti disastrosi sul piano sia dell’efficienza che delle ricadute sociali. E il fatto che Brancaccio abbia citato in questo senso proprio uno studio pubblicato dalla Mit Press ha messo quest’ultimo in palese imbarazzo. Riguardo poi ai presunti vantaggi dello Stato regolatore anziché proprietario, Brancaccio ha ricordato le innumerevoli evidenze che segnalano l’ingabbiamento delle autorità di regolamentazione nella maglia di interessi dei soggetti regolati.
Il botta e risposta è proseguito in questo modo per tutto il corso della trasmissione, con Giavazzi quasi sorpreso della necessità per una volta di dover difendere le sue ricette liberiste, e Brancaccio continuamente a incalzarlo.
Autore di una originale connessione tra gli approcci marxisti del surplus e del circuito monetario, tra i promotori dell’appello degli economisti contro l’abbattimento del debito pubblico, Emiliano Brancaccio ci ha offerto una ulteriore testimonianza del fatto che esiste uno straordinario patrimonio di conoscenze, nel campo della critica della teoria e della politica economica, dal quale la sinistra può e dovrebbe attingere per puntare all’egemonia culturale e politica. C’è un che di sconfortante nel fatto che, dopo anni di pensiero unico, il primo vero show-down tra un economista critico e un economista ortodosso sia andato in onda su una rete privata, sotto lo sguardo sorpreso – e alla fine persino compiaciuto – di Giuliano Ferrara. Viene pertanto da chiedersi: quando avremo il piacere di assistere a un evento simile sulla Rai?