Quando Tremonti non c’era

Si farà l’Ulivo organico o quello composito? Un accordo politico o di mera desistenza con Rifondazione? Mentre s’infiamma la discussione sulle formule e sulle liste, tace quella sui programmi, che pure tutti ammettono essere la più importante. La ragione più probabile è che molti dirigenti e intellettuali che si riconoscono nel progetto ulivista sono convinti che il programma c’è ed è analogo a quello portato avanti nel quinquennio 1996-2001. Già all’indomani della sconfitta, infatti, non furono pochi a dire che l’Ulivo aveva perduto non perché avesse fatto scelte politiche ed economiche sbagliate, ma perché non aveva saputo venderle con efficacia analoga a quella con cui Berlusconi aveva incantato molti italiani, quasi che tutto dipendesse da un’errata politica di marketing. Un argomento a favore di questa diagnosi può essere rinvenuto in alcune inchieste pubblicate subito dopo le elezioni, che misero in evidenza come il centro-destra avesse conquistato in prevalenza il voto di uomini e (soprattutto) donne con un livello d’istruzione medio-basso, non molto interessati alla politica e informati prevalentemente dalla televisione. È però difficile pensare che se costoro avessero visto migliorare il proprio livello di vita nei cinque anni precedenti avrebbero dato ascolto alle sirene berlusconiane: per quanta antipolitica possa allignare nelle fasce più basse e/o meno colte della popolazione, per esse vale sempre il proverbio siciliano megghiu u tintu canusciutu ca u bonu a canusciri (meglio il cattivo già sperimentato che il buono ancora da provare) e, fatti due conti in tasca, avrebbero confermato il voto precedente, come testimonia la preferenza accordata per cinquant’anni ai governi democristiani.

Il punto è invece che, nel quinquennio ulivista, costoro hanno visto diminuire il proprio benessere. Il risanamento finanziario ha implicato una contrazione della spesa pubblica e un aumento delle imposte senza precedenti; i salari hanno perduto sia in termini reali che relativi (cioè in rapporto ai profitti), la componente strutturale della disoccupazione è cresciuta e il divario tra il Mezzogiorno e il resto del Paese ha ripreso a crescere, mentre anche nel ricco Nord si è affacciata la povertà. Il che equivale a dire che le destre hanno vinto non per lo strapotere mediatico di Berlusconi, ma perché questo strapotere mediatico ha intercettato lo scontento dei gruppi sociali più penalizzati dall’azione dell’Ulivo: le imprese del nord-est, che – benché gratificate dalla maggiore flessibilità immessa nel mercato del lavoro – hanno visto sparire, con l’adozione dell’euro, i margini di profitto prima assicurati dalla politica delle svalutazioni competitive, e la popolazione meridionale, che ha visto peggiorare senza scampo le proprie condizione di vita a seguito della chiusura dei rubinetti della spesa pubblica. Per convincersene, basta analizzare l’offerta politica con cui la Casa delle libertà ha vinto le passate elezioni: al nord, specie dove prevale il capitalismo molecolare del terziario postfordista, si sono blanditi gli animal spirits della competizione, con slogan incentrati sulla «libertà» di fare, disfare, intraprendere, licenziare, ecc.; al sud, invece, si è privilegiata l’inesausta domanda di «lavoro», con la promessa di spendere il denaro pubblico in edilizia, infrastrutture e ponti sullo Stretto.

Non pochi (e chi scrive fra questi) ritengono che il limite principale dell’esperienza dell’Ulivo vada ricercato nell’incapacità di intraprendere politiche che avviassero a rimedio i mali storici della nostra realtà economica e sociale: una struttura fortemente territorializzata della produzione e dell’occupazione, il declino del contenuto tecnologico dei nostri prodotti, la conseguente possibilità di competere con l’estero solo sul costo del lavoro, un settore terziario e finanziario che pratica comportamenti collusivi, infrastrutture civili fatiscenti, consumi penalizzati da almeno due decenni di distribuzione del reddito favorevole ai profitti, un welfare iniquo ed escludente. Mentre ciò avrebbe richiesto cospicue risorse finanziarie a sostegno della domanda pubblica, prima ancora che privata, le statistiche indicano invece che negli anni dell’Ulivo gli investimenti pubblici, scesi ai minimi storici durante i quattro anni precedenti, non hanno mostrato alcuna significativa inversione di tendenza, mentre si è proceduto con dedizione degna di miglior causa nella privatizzazione del patrimonio industriale, con i risultati che Luciano Gallino ha ora scolpito con rara efficacia descrittiva nel suo prezioso La scomparsa dell’Italia industriale.

Si obietterà che risorse non ce n’erano perché si dovevano rispettare i parametri di Maastricht e il Patto di stabilità. Ma il punto è proprio questo: lo sforzo di convergere verso quei parametri obbliga lo Stato italiano a spendere per sanità, pensioni, istruzione, ricerca e sviluppo ecc. meno di quel che introita con le tasse e a «girare» la differenza ai portatori di titoli del debito pubblico, almeno fino a quando quest’ultimo non sarà abbattuto di circa la metà. Come si può pensare, con questi vincoli, di metter mano ai veri problemi della struttura economica e sociale italiana? Non ne viene la tendenza a scambiare per «riformismo» l’ulteriore destrutturazione del mercato del lavoro e della previdenza sociale? Non parlano forse di questo le recenti aperture di Rutelli sui salari differenziati per il Mezzogiorno e di Prodi (e dello stesso Rutelli) sulla necessità di aumentare l’età pensionabile, nonostante che perfino i ciechi si siano accorti che gli strumenti legislativi volti a favorire la flessibilità hanno scarso se non nullo impatto sulla composizione e dislocazione della disoccupazione e che il vero problema del nostro sistema pensionistico è che, andando a regime le riforme fin qui realizzate, avremo intere generazioni di pensionati poveri?

Se questi sono i nodi, si può aggiungere che la vera fortuna dell’Ulivo (che è anche ciò che ancora consente ai suoi esponenti di rappresentarsi positivamente il loro pregresso operato) è stata quella di imbattersi in una congiuntura internazionale favorevole: l’assurdità dei vincoli di Maastricht, infatti, è emersa in modo dirompente quando l’economia americana ha smesso di trainare l’economia mondiale. Far finta, però, che il problema non esista e addossare alla «finanza creativa» di Tremonti la colpa dell’interruzione del processo di risanamento è, a essere gentili, miope: la verità è che Maastricht obbliga la nostra politica economica ad essere prociclica, cioè restrittiva in fase di recessione per compensare il minore gettito fiscale e moderatamente espansiva (solo) in fase di crescita, dunque ad enfatizzare i movimenti del ciclo economico invece che attenuarli. Ma è ragionevole rinunciare ad avere una crescita autonoma e rimanere legati mani e piedi alle poche virtù e ai molti vizi del ciclo economico (e politico) statunitense?

Concludo. Alcuni anni fa, aprendo proprio su questo giornale una discussione su un libro provocatorio di Jean-Paul Fitoussi (Il dibattito proibito), Michele Salvati osservò che la debole performance dell’economia europea rispetto a quella americana si doveva principalmente al fatto che gli Stati uniti erano riusciti ad adeguare il proprio apparato produttivo e il proprio mercato del lavoro alle esigenze della «crescita lenta», mentre l’Europa incontrava difficoltà ad adattarsi ad un modello di sviluppo così profondamente diverso da quello vigente durante i «trenta gloriosi keynesiani». Il caso svedese sembra tuttavia confermare l’opinione di quanti sostengono che non è il welfare a generare disoccupazione e disavanzi di bilancio ma il suo abbattimento, mentre la stessa esperienza americana mostra che, in assenza di adeguati sistemi di protezione sociale, la politica fiscale e quella monetaria sono costrette a diventare molto più attive di quanto i vincoli europei possano consentire. E allora, amici dell’Ulivo, qual è la vostra strategia?