Quando le mondine si emanciparono cantando

Alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, dal paesaggio padano sparirono d’ improvviso le mondine. Sino allora, chi percorreva in macchina qualche strada del Vercellese o del Pavese di giugno vedeva le risaie allagate e le file delle mondine che, nell’ acqua sino alle cosce, stavano chinate al loro lavoro, spesso cantando. Tutto terminò quando l’ attività di estirpare la vegetazione infestante e di espiantare e ripiantare le pianticelle del riso incominciò a essere compiuta da diserbanti e da strumenti meccanici. Le mondine e la loro vita costituivano un fenomeno sociale e di costume di grande rilievo. Nelle zone di risicultura (Vercellese, Novarese, Pavese, Lomellina, Polesine, Bolognese), giovani e meno giovani si riversavano nell’ area delle risaie dal territorio circostante, anche con apporti da altre regioni del Nord. Una concentrazione di donne (quel lavoro era quasi esclusivamente femminile) che lasciavano le loro famiglie per un periodo di circa quaranta giorni, ospitate in grandi capannoni dove si dormiva sulla paglia e impegnate in orari durissimi, sino a 11-13 ore al giorno, con interruzione per un rancio frugale, agli ordini di «caporali», armati di bastoni, che facevano gl’ interessi dei proprietari, spesso con arroganza. Lavoro durissimo e poco pagato, sotto il sole e con le gambe nell’ acqua infestata da cimici, la schiena curva, le mani tormentate dalle erbacce taglienti e il pericolo della malaria. Che si sviluppassero tra le mondine movimenti di ribellione è più che naturale; numerose leghe furono il risultato di questo scontento. Ciò che colpisce è che anche in quelle durissime condizioni le donne abbiano maturato forme di trasgressione alla morale tradizionale e che il tempo della monda sia diventato per molte di loro un periodo di distacco dalle severe tradizioni familiari, di danze nei giorni di festa e di libertà anche sessuale. Una temporanea schiavitù che sviluppò una prorompente emancipazione. In più, le mondine vivevano nella musica: la fatica della risaia era alleviata, e ritmata, dai canti intonati in coro; canti venivano eseguiti anche andando al lavoro o nelle ore di svago. Alcuni di questi erano di protesta per il poco vitto, gli orari pesanti e la paga meschina; altri evocavano il viaggio verso le risaie, il fidanzato o il marito lontano, la mamma rimasta a casa, l’ ansia di tornare in famiglia. Ma le mondine cantavano di tutto: canti tradizionali, tragici e comici, canti politici, anarchici e socialisti, pacifisti e anticlericali, canzoni allora in voga, magari adattate alla situazione; e soprattutto canti militareschi. Di fatto, l’ esistenza delle mondine ricalcava in parte quella dei soldati: vita forzatamente associata, caserma, rancio, obbedienza ai superiori; e anche: lontananza da casa, nostalgia, amori interrotti e messi a repentaglio. Proprio questa rassomiglianza al servizio militare faceva del periodo di monda un fenomeno collettivo molto partecipato. E per questo gli scrittori si sono spesso avvicinati con simpatia all’ epopea delle mondine: non solo Gadda e Vassalli, ma la Marchesa Colombi, fortunata scrittrice popolare; e Renata Viganò, e tanti altri. Famoso poi il film neorealista di De Santis, Riso amaro (1949), con una splendida Silvana Mangano, seguito dal meno fortunato La risaia (1956), di Matarazzo. Questa storia è ripercorsa in tutti i suoi aspetti da Franco Castelli, Emilio Jona e Alberto Lovatto, nel grosso volume Senti le rane che cantano. Canzoni e vissuti popolari della risaia (edito da Donzelli), che, facendo centro nel Vercellese, porta a conclusione le ricerche pionieristiche di Sergio Liberovici e dello stesso Jona. Alle 228 avvincenti pagine di carattere storico, letterario, antropologico, sociologico, musicale, linguistico, seguono le trascrizioni dei canti (forniti anche in cd), divisi nelle quattro sezioni di Canti narrativi, Canti politico-sociali, Canti di lavoro, Canti licenziosi. Per ogni canto si forniscono tutti i dati storici, integrati poi da una ricca bibliografia e discografia. Può colpire la diversissima diffusione geografica dei canti: se ce ne sono alcuni che s’ incontrano in tutta Europa o almeno nella contigua Francia o nel resto d’ Italia o anche soltanto nel Nord, si arriva ad altri che hanno lasciato traccia in una sola provincia e che magari si possono riportare a precisi fatti di cronaca o di politica (per esempio l’ assassinio di Matteotti o l’ attentato a Togliatti); se l’ elaborazione dei testi è prevalentemente anonima, per alcuni, pochi, si possono indicare autori e date. Ma la cosa più interessante è che ogni canto veniva più o meno trasformato, innestandovi allusioni al contesto e ai sentimenti dei cantori. Sono fenomeni complessivamente ben noti, ma che qui i curatori hanno documentato con scrupolosi confronti fra le redazioni attestate. Anche l’ antichità dei canti è varia: se non vogliamo risalire, col Nigra, ai longobardi, ci sono senz’ altro testi di sicura origine quattrocentesca, ma si arriva ad altri della metà del Novecento, dei quali si conosce persino l’ autore. E poi, le mondine hanno contaminato un canto con l’ altro, senza troppo preoccuparsi della coerenza: ciò che importava era soprattutto la musica, pure riportata e illustrata nel volume. Il dischetto accluso, con i suoi cori e con gli assoli e con la varietà delle voci registrate, ricrea l’ atmosfera di un mondo che non c’ è più. l’ opera Il saggio di Franco Castelli, Emilio Jona e Alberto Lovatto, «Senti le rane che cantano. Canzoni e vissuti popolari della risaia», dedicato alla storia del «canto di risaia», è edito da Donzelli (pagine XIX-556, euro 39, con cd)