Quando il welfare produce consenso

La vittoria delle sinistre in Svezia, largamente annunciata del resto, costituisce a mio avviso un interessante banco di prova per testare un assunto largamente corrente presso l’intellettualità nostrana: quello secondo cui, per reggere il confronto con la globalizzazione, il nostro welfare state dovrebbe essere ridimensionato a vantaggio dell’iniziativa privata, perché fonte di iniquità, inefficienze, sprechi e, per di più, frutto di un’ispirazione dirigista, che mal si concilierebbe con le libertà individuali. In Svezia, infatti, le sinistre hanno vinto non perché promettessero di «riformare» il welfare, ma – al contrario – perché hanno insistito sul suo mantenimento e ampliamento; non perché hanno inseguito un fantomatico «centro» (leggi: borghesia commerciale e dei professionisti), blandendolo con sgravi fiscali più o meno consistenti, ma perché hanno battuto il tasto sulla necessità di un prelievo fiscale tra i più alti al mondo; non perché hanno rincorso le imprese in modo unilaterale, compromettendo le tutele del lavoro e la forza dei sindacati, ma perché hanno creato le condizioni perché la flessibilità richiesta dalle nuove tecniche produttive e organizzative non mettesse capo ad una precarizzazione diffusa del lavoro salariato e ad un accrescimento delle disuguaglianze; non perché hanno fantasticato di un «terzo settore», al quale delegare (a costi inferiori) i servizi di cura e riproduzione, ma perché hanno scommesso sulla maggior efficienza della loro offerta da parte dello Stato.
Le ragioni per cui, in Svezia, appare essersi concretizzata quella «quadratura del cerchio» che in altre parti d’Europa sembra invece ormai irraggiungibile, specie a seguito dell’avvento delle destre in Spagna, Portogallo, Italia, Francia, Olanda e… Gran Bretagna, sono da ricercare nell’evoluzione che il regime di welfare svedese ha subito negli ultimi trent’anni. Come emerge nitidamente nei lavori di Gøsta Esping-Andersen, le peculiarità del modello scandinavo di «Stato del benessere» non sono tanto da ricercare nel carattere universale delle provvidenze erogate (dall’istruzione alla sanità alle pensioni, concesse a tutti i cittadini e non solo a coloro che certificano un qualche stato di indigenza), né in una loro particolare «generosità» (basti pensare, ad esempio, alle pensioni di cui godono in certi regimi «continentali» – Francia, Germania e Italia – i dipendenti pubblici), quanto piuttosto nel fatto che, venuto a crisi quel particolare regime d’accumulazione che fu il fordismo, dunque venuto a crisi un modello occupazionale basato sul lavoro maschile standardizzato e a tempo indeterminato, sul quale era (ed è tuttora) costruito il sistema delle protezioni sociali della stragrande maggioranza dei paesi occidentali, il welfare scandinavo ha cominciato ad aggiungere (aggiungere, si badi, non sostituire) alle misure già esistenti un’enorme quantità di servizi sociali e trasferimenti a favore delle donne occupate, in primo luogo per garantire l’assistenza ai bambini (grazie ad una rete straordinaria di asili-nido, tale per cui una famiglia svedese sopporta circa un terzo del costo che una famiglia italiana deve fronteggiare per fruire di un servizio analogo, che incide per circa il 40% del reddito familiare medio) e, in secondo luogo, per assicurare l’assistenza agli anziani.
Si è trattato, a ben vedere, di una politica a favore della famiglia, ma in un senso molto diverso dalla tradizionale accezione conservatrice che la locuzione riveste nei paesi continentali, in specie in quelli con forte presenza della cultura cattolica. Mentre in questi ultimi una politica «a favore della famiglia» si identifica spesso (se non sempre) in un insieme di trasferimenti in denaro che possano distogliere la donna dall’offerta del proprio lavoro sul mercato, la politica svedese mira piuttosto ad alleggerire la donna dai carichi di cura della famiglia, diminuendo il grado della sua dipendenza dai vincoli di reciprocità che si instaurano al suo interno; è, cioè, una politica «women-friendly» e non una riproposizione di familismi statii quanto oppressivi (come ci ha spiegato la cultura della differenza di genere).
I risultati non si sono fatti attendere. Uno è stato la fortissima espansione dell’occupazione pubblica, oggi equivalente a circa il 30% del totale della forza-lavoro occupata (e dunque, più che doppia della media Ocse). In Svezia, infatti, l’offerta di servizi di cura e riproduzione, notoriamente ad alta intensità di lavoro, è stata essenzialmente gestita dallo Stato in proprio e non per delega al «terzo settore», sicché la «terziarizzazione» dell’economia è coincisa con l’estensione del welfare state, invece che con il suo ridimensionamento.
Un secondo risultato, di non meno interesse per noi italiani, afflitti dal declino del tasso di fecondità e dai problemi cui esso mette capo, è stato il mantenimento di un elevato tasso di natalità, che oggi è circa di 2,1 (contro l’1,3 circa delle cattolicissime Spagna e Italia): evidentemente fiduciose nella rete pubblica di assistenza, le donne svedesi non hanno rinunciato ai piaceri della maternità – non hanno dovuto vivere, come le loro sorelle italiane o spagnole, lo spiacevole trade-off fra occupazione e cura della famiglia.
Il terzo risultato è stato l’innalzamento del tasso di occupazione (nei paesi scandinavi si attesta fra il 75 e l’80 per cento, contro una media del 50-60 nell’Europa continentale), che – in uno con il mantenimento di un tasso di fecondità di poco inferiore agli anni Cinquanta e Sessanta (quelli del baby-boom, per intenderci) – ha posto le pensioni svedesi al riparo dalla mannaia dei mercati finanziari. E un quarto risultato, coerente coi primi tre, è stato un mercato del lavoro caratterizzato da un elevatissimo livello di eguaglianza salariale (del resto, circa l’80 per cento della forza-lavoro è iscritta ai sindacati, il che permette quella forte centralizzazione delle contrattazioni salariali che è premessa indefettibile affinché l’obiettivo della stabilità dei prezzi venga sottratto alle ossessioni deflazionistiche delle autorità monetarie) e – udite, udite! – da un consistente grado di flessibilità. Del resto, perché meravigliarsi? Non è che i lavoratori siano «rigidi» per natura o maledizione. Lo diventano se debbono fronteggiare una situazione in cui il loro salario è l’unica fonte di reddito e il loro reddito è l’unico modo per accedere ai servizi di cura e riproduzione. In altri termini, è lì dove il familismo è pervasivo e il tasso di occupazione femminile insufficiente che il salario del maschio occupato diventa letteralmente vitale per tutta la famiglia. Non a caso, la letteratura più avvertita suggerisce di invertire la relazione causale: non è la rigidità del mercato a generare la frattura tra insider e outsider, ma l’importanza che il salario del maschio occupato ha dove il livello di protezione e assistenza sociale è scarso a indurre gli occupati a invocare «irrigidimenti» nelle tutele in uscita.
Tutto ciò, s’intende, ha un costo: come accennavo prima, il prelievo fiscale svedese è elevatissimo – circa il 58% del Pil. Ma proprio a questo riguardo l’esperienza scandinava consente di avvalorare un’importante intuizione del Nobel James Buchanan, tra i maggiori teorici di economia della finanza pubblica, senza per ciò stesso sposarne le tesi ultraliberiste: e cioè che, indipendentemente dalla distribuzione effettiva dei carichi fiscali e dei benefici, ciò che conta è come la distribuzione viene percepita. E la «percezione fiscale» muta, ovviamente, a seconda dell’impiego che lo Stato fa delle risorse prelevate – a seconda di cosa, come produce e per chi. O è solo un caso che – come documentato da moltissimi studi empirici – gli atteggiamenti di «rivolta fiscale» si sono sempre accompagnati a precise richieste di allargamento della spesa pubblica, specie nella sua componente socio-assistenziale, svelando così come la «rivolta» concernesse più l’uso che il peso delle tasse?
Quando si tratteggia un quadro del genere, in genere gli scettici fanno leva su due argomenti per sostenerne la non esportabilità. Uno è che il basso ammontare di popolazione – gli svedesi sono circa sette milioni – favorirebbe la diffusione forti legami solidaristici, difficili invece da creare in realtà più popolose. Un secondo è che, anche in Svezia, la disoccupazione è giunta al 9-10%, vale a dire ad un livello analogo a quello di altri paesi europei.
Il primo argomento è semplicemente falso. Anche chi si è fermato al primo capitolo de La logica dell’azione collettiva di Mancur Olson sa che le difficoltà, che impediscono ai gruppi numerosi di cooperare efficacemente in modo volontario per il raggiungimento di fini comuni, insorgono quando i gruppi superano le poche unità e che, senza un efficace sistema di regole, sanzioni e incentivi, nessuna comunità organizzata può produrre i beni pubblici di cui ha bisogno. Insomma, non è che gli svedesi sono «solidali» perché sono pochi; lo sono perché dispongono di un insieme di apparati statuali (dislocati sia nella società politica che nella società civile) che opera efficacemente sul piano preventivo e repressivo. E questa semplice verità vale per una collettività di sette milioni di persone come per una di cinquantasette.
Il secondo argomento si basa su di un’illusione ottica. Vero, infatti, è che il tasso di disoccupazione svedese è attestato a quel livello, ma si tratta di un tasso che – come si è già ricordato – è calcolato su una forza-lavoro che tocca il 75-80% degli attivi e non il 50-60%. Se in Italia offrisse i suoi servigi sul mercato un’analoga percentuale della forza-lavoro attiva, il tasso di disoccupazione – ceteris paribus – sarebbe verosilmente pari al 15-16%. Né va dimenticato che, in Svezia, le politiche attive del lavoro hanno un posto importante nell’agenda del governo – e, si badi bene, le «politiche attive» svedesi sono altra cosa da quelle anglosassoni di welfare to work (o workfare): queste ultime si risolvono in un onere a carico del cittadino, che deve dare la sua disponibilità ad un lavoro purchessia in cambio di un sussidio, mentre le politiche attive svedesi impegnano lo Stato ad offrire ai cittadini in età da lavoro risorse, motivazioni e, naturalmente, posti occupabili.
Insomma, il «modello scandinavo», benché certo non immune da difficoltà, regge bene la sfida con la globalizzazione, la fine del fordismo, l’avvento dell’«economia della conoscenza» e, in genere, con tutte quelle formulette che – quasi come giaculatorie – ci sentiamo ripetere per sostenere che una «sinistra moderna» deve rassegnarsi a seguire il Blair di turno e rinnegare se stessa e i suoi sostenitori sull’altare del governo. Chissà che non sia questo il programma che invocavano, domenica scorsa, gli ottocentomila di piazza san Giovanni.