Quando il potere decide: sei diverso, dunque ti uccido

Troppe volte diciamo e sentiamo dire che in un paese “normale” fatti di questa natura non dovrebbero verificarsi, eppure accadono. E quando accadono sono dirompenti, pieni di ombre e di una nebbia intensa che non permette di comprenderli a fondo, che li occulta e impedisce di trovare la concreta disamina della vicenda. Si attorciglia su di sé, come molte altre storie simili, la sequenza degli ultimi istanti di vita del giovane Federico Aldrovandi. Altalenanti voci nelle registrazioni della polizia, mezze parole, tecnicismi lessicali e un’incomprensibile fotogramma della scena finale della vita di un giovane.
Come sia morto Federico sembra evidente dai referti medici, dai due manganelli spezzati giunti in questura: massacrato di calci, pugni e chissà che altro. Come questo si sia potuto verificare è più complesso da ricostruire. La somiglianza è notevole con quei puzzle dove anche per la mancanza di poche ultime tessere non si riesce a capire di quale figura si sia composta la cornice complessiva. E anche se aggiungi una tessera che ti era sfuggita, ebbene non è mai a sufficienza.

Quella mattina del 25 settembre 2005 Federico sta rientrando a casa. Ha passato probabilmente la notte in discoteca con amici. Non ha assunto sostanze stupefacenti. Forse una canna, ma nulla che possa giustificare un pestaggio da parte delle forze dell’ordine per fermare un esagitato in tremende escandescenze.

Eppure, Federico sulla sua strada incontra proprio le forze dell’ordine e qui la sua vita si ferma. Ecco. Stiamo a questi dati: la sua vita cede al tutto, si blocca e sfiorisce. Muore Federico non perché gli mettono le manette ai polsi o perché gli fanno una multa. Muore, se ne va dalla sua vita giovane perché riceve tante e tante percosse che qualche organo del suo corpo non regge agli urti, si infrange come un vetro pregiato, si spezza e non c’è modo di ricomporlo. I sanitari che giungono sul luogo si rendono immediatamente conto che Federico non ha speranze. Gli stessi agenti che l’hanno fermato si lasciano scappare questa affermazione: «L’abbiamo bastonato di brutto per mezzora, solo che adesso è mezzo morto». Sempre nelle registrazioni della polizia, si comprende chiaramente che Federico avrebbe «dato di matto» e gli avrebbe addirittura danneggiato un’automobile. «Questo è un pazzo duro», dicono al microfono alla centrale. E poi ancora: «Abbiamo avuto una lotta di mezzora con questo». Ma perché una lotta di trenta minuti contro un ragazzo che non aveva nessun motivo per diventare un ciclone distruttore? Cosa avrebbe scatenato questa furia contro mezzi della polizia, contro i poliziotti stessi da impegnarli in una azione di immobilizzazione di mezzora?
Quale persona può riuscire a tenere sotto scacco più di un poliziotto, forse anche tre o quattro (le volanti presenti sul luogo della triste vicenda sono almeno due, la numero 2 e la numero 3; a queste viene in soccorso anche la volante 4 su richiesta esplicita mediante comunicazione alla questura) per mezz’ora?

Le comunicazioni tra le volanti e la questura sono lacunose. Questo avviene per via del fatto che spesso gli agenti comunicano anche mediante cellulari, per fare prima, per eludere magari gli indiscreti orecchi delle trasmittenti che sono sottoposte a registrazione continua di quanto comunicati e ricevuto in comunicazione.

Ecco la nebbia, ecco le ombre. Questo sappiamo della morte di Federico Aldrovandi. Sappiamo che muore quella mattina, che i genitori vengono avvisati della sua morte ore e ore dopo l’accaduto e che due manganelli si sono spezzati nel tentativo di redarguirlo chissà da cosa o da chi. E che lui non ce l’ha fatta e che, come due manganelli, simbolo della violenza perpetrata, si è spezzata la sua vita che fino ad allora era proseguita serena, felice e tranquilla.

Al fondo di tutto resta una gestione del tanto celebrato ordine pubblico sempre più problematica nel nostro Paese, dove chi può dirsi al sicuro da una fine di questo tipo è difficile da individuare. Potenzialmente tutti noi possiamo incappare in una ragnatela asfissiante come questa, che non lascia scampo, che oltretutto non lascia la verità sul campo, ma solo brandelli di parole, di sospiri ai microfoni accompagnati da frasi che sono solite essere pronunciate contro i “sovversivi”. Ma Federico non era un “sovversivo”, e se anche lo fosse stato non aveva commesso alcun reato, neppure una inutile infrazione da pagare con una multa. Tornava a casa con il suo cellulare in tasca, con l’allegria di una notte ormai trascorsa, senza presagire minimamente che di lì a poco sarebbe morto per un violento pestaggio.

L’insicurezza del nostro futuro non è solo data nel mondo del lavoro, dove il precariato rende tutto labile e incerto, ma la si ritrova anche fuori dalla fabbrica, dal proprio posto di impiego, dalla scuola. La si ritrova nella violenza di alcuni poteri che vogliono risolvere qualsiasi “anormalità” con la repressione, senza la benché minima disposizione all’ascolto dell’altro da noi. E’ una pericolosa china, uno spartiacque così sottile da farci cadere tutti nel versate delle malmenazioni e della brutale bastonatura che ti spetta se non sei come vogliono quelli che il manganello hanno tra le mani. E’ una pericolosissima tendenza del potere, un potere spietato che oggi se la prende con chi ha i capelli più lunghi, domani con chi porta un orecchino. E’ tutta la vita che combattiamo questa concezione del potere. Continueremo a farlo, per dare piena luce alla vicenda di Federico, per sapere appieno cosa accadde quella notte-mattina del 25 settembre 2005.