Quando il Nafta diventa Nafta plus.

Come l’intergrazione economica tra Messico, Stati uniti e Canada si prepara alla moneta unica.
A colloquio con l’economista Miguel Pickard. «Regolamenti al posto dei trattati: così si scavalcano i parlamenti»

San Cristobal de Las Casas, Chiapas
Nei primi quattro anni di governo del presidente Vicente Fox, l’economia messicana non ha saputo creare, in termini netti, nemmeno un nuovo posto di lavoro formale». Miguel Pickard, economista messicano, lavora come ricercatore presso il Centro di ricerche economiche e politiche di azione comunitaria di San Cristobal de Las Casas, Chiapas. Con lui analizziamo i dati diffusi dall’Instituto mexicano del seguro social, che raccontano il progressivo smantellamento della normativa a protezione dei lavoratori in Messico. Nel 2000 c’erano 12 milioni e 546mila lavoratori assicurati, nel 2004 erano 12 milioni e 509mila, 37mila in meno. «Negli ultimi dodici anni è triplicato il numero di miei connazionali che ogni anno tentano fortuna negli Stati Uniti d’America – segnala Pickard -. Questo si deve senz’altro al Nafta». Il Nafta è l’accordo di libero commercio che crea un unico mercato tra Stati uniti, Canada e Messico, in vigore dal 1994. L’applicazione dell’accordo, costringendo il Messico a competere con due Paesi molto più ricchi e industrializzati, ha devastato l’economia messicana. L’evidente fallimento di questo modello di integrazione economica non ha però convinto il governo Fox a mettere in discussione l’adesione al mercato unico. Tutt’altro: Fox sta discutendo con Bush e il primo ministro canadese Paul Martin una sorta di Nafta plus, che alcuni chiamano “Alleanza per la sicurezza e la prosperità dell’America del Nord”. «Il Nafta plus – riprende Pickard – non è un altro trattato di libero commercio, piuttosto un’etichetta che si ha voluto dare a una serie di idee relative a una maggiore integrazione tra i tre paesi. I candesi, ad esempio, hanno evitato di chiamare questa serie di idee Nafta plus e lo definiscono “integrazione profonda”, perché non si corra il rischio di confonderlo con un trattato». Perché tanta preoccupazione per un nome, allora, chiediamo a Pickard? «Perché se fosse un trattato, allora dovrebbe essere un testo negoziato, unico, che la società civile potrebbe studiare con relativa facilità e dovrebbe essere approvato dai tre parlamenti. Proprio per il fatto di non essere un solo trattato, quanto piuttosto una serie di regolamenti firmati dai tre mandatari (circa 300 quelli già sottoscritti, secondo un comunicato del 27 giugno scorso), il Nafta plus non passerà nessuna revisione, né dei Congressi messicano e statunitense, né del Parlamento canadese, né tantomeno della società civile». Chi sta promovendo il Nafta plus nei tre paesi? «L’integrazione profonda – riprende Pickard – è promossa dalle élite dei tre paesi, che la presentano come una mera estensione del Nafta, per dare l’idea che comporterà solamente una maggiore apertura delle frontiere. Ma il Nafta plus va oltre, perché è diretto a creare un nuovo spazio, nordamericano, che, per molti aspetti, sarà un solo Stato. L’impulso da cui nasce non è il commercio, bensì le esigenze di sicurezza degli Stati Uniti d’America. Dopo l’11 settembre, gli Usa hanno adottato una strategia di espansione delle proprie frontiere verso l’esterno, con l’obiettivo di identificare, intercettare, immobilizzare e, se possibile, sterminare il nemico, in particolare quelli che possano detenere armi di distruzione di massa. I vantaggi per gli Stati Uniti sono molteplici. Si rende più profondo, tra l’altro, anche il libero commercio, e ciò facilita l’accesso Usa alle risorse naturali tanto canadesi come messicane. L’accesso alle risorse energetiche (petrolio, gas) e all’acqua, in particolare, sono di vitale importanza per la sicurezza degli Stati Uniti d’America». E quali saranno le conseguenze del Nafta plus? «Ciò che si perderà, con questo nuovo modello d’integrazione, è la sovranità, l’indipendenza nel prendere decisioni che favoriscano gli interessi privati dei cittadini dei paesi “soci minori”, come anche la possibilitá di pensare, in Messico, a un futuro che non contempli gli interessi degli Stati Uniti d’America». «Ad esempio – continua Pickard – la possibilità di una maggiore integrazione politica con il resto dell’America Latina, una processo già in corso in particolare tra i paesi dell’America del Sud, e che per il Messico diventa ogni giorno più remota a causa dell’integrazione profonda. Si parla poi, nel lungo periodo, di arrivare ad utilizzare un’unica moneta, che sarà senz’altro il dollaro statunitense, anche se gli si darà un altro nome, che eliminerà il controllo delle autoritá messicane (e canadesi) sulla politica monetaria e fiscale».
Prima ci ha parlato della migrazione, spesso l’unica valvola di sfogo per centinaia di migliaia di indigeni e contadini che non riescono più a sopravvivere nelle proprie comunità d’origine. «Questo – afferma Pickard – è uno dei temi più caldi. Coloro che hanno scritto sul tema del Nafta plus, da una prospettiva che è quella delle élite, affermano che la frontiera tra Messico e Stati Uniti d’America non potrá aprirsi alla manodopera messicana fino a quando non saranno eliminate le asimmetrie a livello economico tra i due paesi. Dicono che è l’asimmetria nei redditi che provoca la migrazione, o che la maggiore povertà del Messico è la causa della migrazione. Noi, piuttosto, consideriamo che questa sia legata alla mancanza di posti di lavoro. Se i messicani potessero trovare un lavoro dignitoso in Messico, con un salario in grado di coprire i costi delle necessità di base, e non sto parlando di salari alti, ma solo di salari decenti, si eliminerebbe uno degli incentivi più importanti all’emigrazione. Le élite negli Stati Uniti d’America vedono la migrazione, dal proprio punto di vista, come una invasione, come un deterioramento per i valori statunitensi, e così temono oltremisura l’apertura delle frontiere tra i due paesi. Un tema centrale nel discorso dell’estrema destra negli Stati Uniti, ma alla quale si accodano volentieri anche molti altri settori nel paese». Pensa, allora, che cambierà qualcosa nella condizione dei lavoratori messicani, oggi costretti, nella maggior parte dei casi, ad emigrare negli Stati Uniti in maniera illegale? «No. Assolutamente no, anche se il settore imprenditoriale dà una lettura diversa della migrazione, e riconosce che alcuni lavori, sporchi, pericolosi, mal retribuiti oggi non vengono piú svolti dagli statunitensi e che perciò hanno bisogno di manodopera straniera, ma legale, e poco propensa a sindacalizzarsi. Per coprire questi posti di lavoro, le autorità degli Stati Uniti stanno elaborando un programma di “lavoratori ospiti” che incrementi il numero di messicani che possano entrare a lavorare negli Usa, ponendo però alcune restrizioni. Ad esempio – conclude Pickard – si dice che questi lavoratori non potranno chiamare negli Stati Uniti i propri familiari e che dopo alcuni anni, si parla di 3 o di 6, dovranno ritornare forzosamente in Messico».