Quando i prosciutti entreranno agli Uffizi

L’identità di uno Stato è legata al suo patrimonio culturale: di conseguenza svilirlo, cederlo o disperderlo significa attentare alle basi della comunità stessa. Il legislatore deve aver sentito particolarmente il problema, se ben due volte tra il 1999 e il 2004 (senza contare le riforme interne al Ministero per i beni e le attività culturali) ha ritenuto necessario riordinare la disciplina dei beni culturali, intatta nella sostanza da circa sessant’anni. Verrebbe da credere, data la solerzia legislativa, che i beni culturali e paesaggistici italiani siano ben tutelati, ma questo cozza fatalmente contro ogni evidenza, stando almeno alla recente chiusura della Domus aurea per infiltrazioni, alle dichiarazioni dell’attuale ministro per i Beni e delle attività culturali Buttiglione sul rischio di crolli esteso al centro storico capitolino, per non parlare degli scheletri e degli obbrobri urbanistici disseminati sul territorio nazionale.

Ed è proprio dalla preoccupazione per la mancanza di una tutela adeguata del patrimonio pubblico che nasce Lo Stato aculturale, il volume edito da Jaca Book a cura del museologo Giovanni Pinna e di Roberto Cassanelli (pp. 192, euro 15). Gli autori, avvalendosi delle esperienze degli addetti ai lavori, criticano il Codice dei beni culturali e del paesaggio voluto nel 2004 dall’allora ministro Giuliano Urbani e giungono alla conclusione che esso non sia solo inadeguato, ma che svilisca il concetto stesso di bene culturale e la professionalità di coloro che se ne occupano.

Fino agli anni Novanta la tutela del patrimonio artistico faceva capo alla legge 1089 del 1939, che riconosceva allo Stato un ruolo preminente nell’identificazione, nella tutela e nella gestione dei beni, facendo prevalere l’interesse pubblico su quello privato. Volontà dei curatori del volume è far emergere e valutare le due principali tendenze che si sono affermate negli ultimi quindici anni. Una è la privatizzazione introdotta timidamente dalla legge Ronchey del 1993, che contempla il ruolo del privato nella gestione dei beni culturali, affidandogli i servizi aggiuntivi a pagamento (servizi editoriali di riproduzione delle opere d’arte, ristorazione, guardaroba, ecc.). Si tratta apparentemente di un cambiamento da poco, che però introduce un principio potenzialmente molto pericoloso: quello secondo cui il bene culturale può essere considerato fonte di parziale «autofinanziamento del patrimonio storico-artistico», quindi risorsa economica da sfruttare. L’altra trasformazione recente consiste nel principio di sussidiarietà verticale che, nel quadro di un più ampio progetto di regionalismo amministrativo, con la cosiddetta legge «Bassanini 2» del 1997, permette al governo di delegare a regioni, province e comuni la gestione dei musei statali, creando quindi un evidente conflitto di competenze tra Stato ed enti locali.

Il Codice, che accoglie e rafforza le tendenze descritte, muove dal concetto fondamentale di mancanza di risorse economiche sufficienti per la tutela dei beni, e dalla conseguente necessità di trovare nuove forme di finanziamento con il concorso, la partecipazione e la cooperazione dei privati, in un’ottica chiaramente più volta alla valorizzazione (se non sfruttamento) che alla tutela (quindi conservazione) del bene stesso.

Detto in altri termini, i beni culturali sono risorse da far fruttare e quindi vanno affidate a chi può gestirli nella prospettiva del guadagno, come una società per azioni, la Patrimonio SpA, che proprio Urbani e Tremonti hanno voluto, e che si occupa della vendita di immobili dello Stato anche con valore culturale e artistico. I limiti di tale sfruttamento economico sono stati emblematicamente definiti dallo stesso Urbani che ha dichiarato: «Se qualcuno vorrà organizzare un’esposizione di prosciutti, con tutto il rispetto dei prosciutti, gli diremo di no, che non si può, che i prosciutti agli Uffizi non possono entrare».

Ma senza ricorrere ai paradossi, è sufficiente fare alcune considerazioni di opportunità per porre qualche dubbio sensato sui principi affermati dal Codice: infatti, se da un lato l’autofinanziamento può garantire entrate a un settore che vive con uno scarso 0,17 per cento del pil mentre la media europea è dello 0,5 per cento, dall’altro si sollevano forti dubbi nel credere che un privato agisca non tanto per il guadagno immediato quanto in una logica dis-economica (o quantomeno di un guadagno non immediato) ma conservativa. Giovanni Pinna, evidenzia quindi una insostenibilità etica alla privatizzazione, che rischia di ridurre i musei a imprese produttrici non di cultura ma di servizi aggiuntivi, o peggio ancora di farne strumenti di manipolazione politica dell’identità statuale sfruttandone la loro intrinseca autorevolezza sulla comunità.

Se è vero che uno Stato basato solo sul successo economico non è destinato a durare, lo strumento dell’economia della cultura sembra sempre più inappropriato se applicato al patrimonio artistico e culturale nazionale, e rischia ancor più di depredare la comunità di una sua ricchezza che al contrario dovrebbe essere inalienabile.