Quando i «musi neri» morirono in fondo ai pozzi

La lampada. «Dove passa la lampada deve passare il minatore», era una regola non scritta ma alla miniera di carbone del Bois du Cazier a Marcinelle non si trasgrediva. Vittorio Costa mostra la sua lanterna e indica
una foto di un cunicolo «era alto 50 centimetri – spiega – se si entrava strisciando sulla schiena restavi per tutto il giorno così, non ti potevi girare». Costa racconta di quando aveva 18 anni e partì da Vicenza «arrivai il giovedì, il venerdì notte ero sceso in miniera». Ci è rimasto 34 anni «21 di servizio in fondo»… Nell’estate del 1956 era nella squadra si sicurezza, lavorava di notte. «La mattina dell’8 agosto vennero a prendermi, servivano soccorsi, rimanemmo qui nove giorni, fino ai primi funerali». La mattina dell’8 agosto al Bois du Cazier per uno sbaglio di manovra venne tranciato un cavo elettrico, divampò l’incendio, 262 minatori morirono asfissiati, inseguiti dalle fiamme. 136 erano italiani, 95 belgi. Il mondo si accorse di quegli uomini. I «musi neri», così venivano chiamati per il carbone che sporcava il viso e non solo per questo, divennero persone.
Ieri a Marcinelle si è voluto ricordare. Per iniziativa dell’Inca, il patronato della Cgil, il vecchio sito minerario, ora museo, ha ospitato politici e sindacalisti. C’erano Bertinotti e Epifani, il presidente uscente dell’Inca Amoretti e l’ambasciatore d’Italia in Belgio Siggia. C’erano i familiari e c’erano loro, i minatori testimoni della sciagura, tute blu, casco, lanterne alla cintura. Non troppi, a dire il vero, sono passati cinquant’anni. E la silicosi, “regalo” della miniera, è una malattia a cui è difficile sopravvivere.
Immigrazione e sicurezza sul lavoro, se ne discute ora come allora. Cambiano i mestieri e i popoli migranti, ma i problemi sono tutti lì. A Marcinelle ci volle la tragedia per convincere che gli immigrati non potevano abitare nelle baracche utilizzate per i prigionieri russi durante l’occupazione nazista. Che non stava né in cielo né in terra che sulla porta di qualche casa ci fosse scritto «no agli animali e agli italiani». Che non era giusto che i migranti solo dopo 5 anni di duro lavoro potevano accedere a qualche diritto e fare sindacato. Che non si poteva incentivare l’emigrazione, come faceva il governo italiano in cambio di tonnellate di carbone a basso costo, 2000 uomini per un tot di merce. Soprattutto si capì che servivano sistemi di sicurezza. «Dopo la catastrofe le nostre condizioni migliorarono del 200% dentro e fuori la miniera. Prima del 1956 morirono a migliaia, dopo solo in dieci, perché tutto venne messo in sicurezza, bisogna dirlo alla gioventu», spiega un minatore. «C’era finalmente la riconoscenza della popolazione, sa i valloni qui sono affabili, ma noi in guerra eravamo stati alleati dei tedeschi…». Pregiudizi verso lo straniero e alleanze sbagliate di cui non si aveva colpa, gli italiani di Marcinelle non se la passavano tanto bene. La storia si ripete, è Aldo Amoretti a mettere il dito sulla piaga: «Se maltrattiamo gli immigrati che vengono in Italia, facciamo del male ai nostri emigrati. Come si fa a chiedere diritti se noi li neghiamo agli altri?».
A Marcinelle morirono in 262 in un colpo solo, in Italia muoiono sul lavoro 4 persone al giorno. Molti sono proprio immigrati. Lo ricorda il senatore Antonio Pizzinato. «Ci sono proposte passate all’unanimità, alcune da fare subito, sono a costo zero. Il governo proceda». Dare comunicazione di un’assunzione il giorno prima che inizi il lavoro; rendere le imprese appaltanti della sicurezza dei lavori dati in appalto; dotare di un tesserino i lavoratori di un cantiere; rafforzare il sistema ispettivo e destinare alla sicurezza il 6% del bilancio delle Asl.
Renzo Machiavelli ebbe modo di riflettere bene quando in miniera per un crollo gli capitò di restare interrato fino al collo. «Non lavoravo qui – racconta – perché c’erano 12 chilometri da fare da casa mia, scavavo qui vicino, ho vissuto brutti momenti col grisù. Ma qui hanno fatto la morte del topo». Tornano alla memoria le storie, i nomi dei compagni di lavoro. «C’erano delle vene piccolissime – continua Vittorio Costa – ci lavoravano sempre gli uomini di una stessa famiglia, i Lessone, erano di Gallipoli, fratelli, figli, nipoti erano piccoli e magri. Quelle vene, (cunicoli) erano chiamate Lessone». C’era Silvio di Luzio, scomparso quattro mesi fa, che quel giorno con Angelo Galvan tentò di calarsi da un pozzo. «Non poterono, c’era troppo caldo e fumo». Ci si accorse che gli stumenti di sicurezza erano inesistenti. Si salvarono solo in 13.Alla fine della storia solo il direttore dei lavori venne condannato in appello, le responsabilità del consiglio di amministrazione dell’impresa e dei politici non vennero mai chiamate in causa. Lucien Bajoux fu fortunato, lavorava il pomeriggio. Lucien ora è la guida del sito industriale. All’ingresso c’è una grande e bella opera di Nocera, dono dell’Inca. Un globo attraversato da uno squarcio. E un’incisione: «Où la lampe passe le mineur doit passer».