C’era una volta un’Italia civile. C’era una volta un’Italia severa in cui risuonavano voci alte di libertà, di democrazia, di giustizia. Da far apparire lunarmente lontana questa Italia di Berlusconi, di Pera, di Castelli, di Gasparri. Lo sappiamo che gli uomini grandi del Novecento sono quasi tutti morti, che quelle minoranze che hanno dato fede, speranza, prestigio e dignità al Paese non esistono più. In queste settimane però, è successo un fatto singolare che può apparire fortuito, ma ha certamente un significato e dimostra la necessità di una memoria pulita, senza manipolazioni ed esprime la voglia di ricominciare con lo sguardo rivolto a quei modelli non dimenticati. In un tempo breve sono usciti libri, fascicoli, documenti del passato che risuscitano vite di uomini e cose accadute, dal fascismo alla metà del Novecento, e servono a far capire, se non ne avessimo quotidiana coscienza, quanto è caduto in basso, oggi, nello stile della vita e della politica, questo nostro Paese e come vale ancora quel che prima di essere fucilato dai fascisti nel 1944 lasciò scritto nella sua ultima lettera Giovanni Cavestro, ragazzo partigiano di Parma
Scrisse Cavestro: «Cari compagni, se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care».
Il 17 gennaio 1954 il presidente della Repubblica Luigi Einaudi riceve al Quirinale Alcide Cervi, il padre dei sette fratelli fucilati a Reggio Emilia dai nazisti il 28 dicembre 1943. Le Edizioni Nottetempo hanno pubblicato ora in un opuscolo il racconto (tratto da Il buongoverno) di quell’incontro epico del vecchio contadino con il vecchio presidente. Einaudi, con uno stile da scrittore autentico scrive in terza persona una cronaca commossa proprio perché priva di una sola parola retorica.
Il Presidente sa che i fratelli leggevano La Riforma Sociale, la sua rivista soppressa dal fascismo: «Sì, i miei figli leggevano molto, erano abbonati a riviste; e cercavano di imparare. Se leggevano qualcosa che pareva buono per la nostra terra, si sforzavano di fare come era scritto».
Luigi Einaudi conosce nel profondo i segreti della terra, dei raccolti, del mondo contadino. Ascolta. Alcide, con le sue sette medaglie d’oro sul petto, parla delle 53 biolche di 2922 metri quadrati l’una, in affitto, (circa 15 ettari e mezzo) su cui vivono lui, il nipote, le quattro vedove e i loro undici figli. In dieci anni hanno lavorato molto. Posseggono falciatrici, mietitrici, aratri, 50 vacche, un bel toro olandese-americano.
Alcide racconta come, dopo aver consultato le nuore – quasi fosse un notaio degli affetti – è entrato in famiglia il nipote, figlio del fratello: «Quando uscii dalla prigione e, tornato a casa, non trovai più i figli e mi dissero che li avevano uccisi, vidi il nipote».
Il vecchio, racconta il Presidente, «parlava lentamente, scandendo le parole e ripetendole per fissare bene nelle teste degli ascoltatori. Era un contadino delle nostre contrade, un eroe di Omero o un patriarca della Bibbia? Forse un po’ di tutto questo. Dagli arazzi napoletani del 1770, stesi sulle pareti dello studio, il pazzo don Chisciotte pareva ascoltasse la parola dell’uomo saggio».
«Il padre: (…) Nella casa lavoriamo, ciascuno secondo le sue forze, in diciassette; e il nipote sta a capo, lavora, compra e vende».
«Forseché – chiede allora il presidente a Carlo Levi, lo scrittore-pittore che era presente – i sette fratelli si sarebbero sacrificati se non fossero stati un po’ pazzi costruttori della loro terra e se il padre non fosse stato un savio creatore della legge buona per la sua famiglia? Si sarebbero fatti uccidere per il loro paese, se fossero stati di quelli che noi piemontesi diciamo della “lingera” e girano di terra in terra senza fermarsi in nessun luogo?».
I presenti consentirono. «E il presidente chiuse: Credo anch’io di no e strinse la mano al padre e a tutti».
Sembra quasi che Piero Calamandrei, maestro e padre della Costituzione, parli proprio dei fratelli Cervi nel suo discorso all’assemblea della Costituente il 4 marzo 1947. L’editore Sansoni l’ha ripubblicato in un libro dei suoi scritti e discorsi politici, Costituzione e leggi di Antigone: «Sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la Resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini alleati a debellare il dolore».
Un altro brandello di memoria, di qualche anno all’indietro, al tempo della guerra e del fascismo: è una lettera inedita di Guido Calogero pubblicata di recente in un opuscolo del Comune di Roma, dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, della casa editrice Diabasis, in occasione del centenario della nascita del filosofo morto nel 1986 e della presentazione di una nuova edizione del suo libro La scuola dell’uomo.
In carcere dal 1942, poi al confino con altri antifascisti del movimento liberalsocialista, Calogero, quando nel maggio 1943 termina il suo soggiorno di confinato, ritorna o crede di ritornare, al suo posto di professore di Filosofia all’Università di Pisa. Ma subito, il 10 maggio, il ministro dell’Educazione Nazionale dell’epoca, Carlo Alberto Biggini, lo dispensa dal servizio: «Sono risultate alcune Vostre manifestazioni di pensiero e di sentimenti nettamente antifascisti e, soprattutto, un’aperta manifestazione di simpatia per l’Inghilterra e di irriducibile avversione contro l’alleata Germania. Già nel giugno 1940, quando già l’Italia era entrata in guerra, all’inizio di una riunione per esami di laurea, Voi affermaste, infatti, sia pure alla presenza dei soli esaminatori, che non ritenevate fosse il caso di compiacersi del prossimo sfacelo della Francia, poiché ciò rappresentava, a Vostro avviso, un danno per la civiltà. Per concorde ammissione, poi, di professori e di autorità politiche, è risultato inoltre che Voi non avete mai nascosto i Vostri sentimenti antifascisti e le Vostre idee contrarie al Regime (…)».
Calogero replica il 19 maggio 1943 con parole nette, con fierezza. Non si giustifica, ha dalla sua parte la ragione. «Come posso io – scrive – avere sentimenti fascisti, dal momento che non sono fascista? Io non sono iscritto al partito fascista. Le mie concezioni politiche sono state da me espresse con ogni chiarezza anche in occasione di un apposito interrogatorio della polizia. (…) Non sono né tedescofobo né anglomane, ma bensì, per quanto posso, italiano ed europeo. Quel che sopra tutto desidero è un’Italia felice: un’Italia che non sia oppressa da nessuno e che non opprima nessuno, in un’Europa in cui non ci siano né egemonie né vassallaggi. Se il fatto di nutrire queste aspirazioni costituisce una “condizione di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo”, codesto ministero può proporre con tranquilla coscienza, al Consiglio dei Ministri, la mia dispensa dal servizio». Calogero viene arrestato, rinchiuso nel carcere di Bari, liberato dopo il 25 luglio, la caduta del fascismo.
Ultimo, ma non certo per importanza, il romanzo di Rosetta Loy, Nero è l’albero dei ricordi, azzurra l’aria (Einaudi). Struggente di dolore e di pietà, è la storia di una generazione. Quella che ha vissuto e sofferto la guerra, da bambini, da ragazzi, da grandi; in Africa, in Russia e poi nell’Italia ferita dove si incrociano i destini di famiglie, di donne giovani, di madri, di figlie, di figli, dalla felice incoscienza della vigilia alla morte, dalle sabbie di El Alamein alla strage di Sant’Anna di Stazzema. Il romanzo si spinge fino agli anni 60, agli albori del boom. È un libro molto bello, inteso di emozioni, che rompe l’aria asfittica della narrativa italiana di oggi. È il racconto di una società, il bilancio di una nazione.
Rimpianti, nostalgie, risentimenti, odio? Soltanto ricorsi, affetti e, forse, un fioco lume di speranza.