Se non fosse per il suo sottotitolo (anzi, per il primo dei suoi due sottotitoli), sarebbe difficile trovare difetti di una qualche rilevanza alla mostra Tempo moderno allestita al genovese Palazzo Ducale in occasione dei cento anni della Cgil: una mostra che non soltanto è ben articolata, ma che soprattutto ha il pregio di suscitare una quantità di fertili interrogativi sul tema di cui tratta, ovvero – come spiega il secondo sottotitolo, quello «giusto» – Lavoro, macchine e automazione nelle arti del Novecento. Ma spesso dagli errori si apprende più che dalle virtù, e dunque vale la pena di cominciare proprio dal sottotitolo incriminato, che promette laconicamente ai visitatori di condurli lungo un itinerario Da Van Gogh a Warhol.
Sotto il sottotitolo
Come si può intuire, in sé e per sé la promessa viene mantenuta, poiché l’esposizione contiene in effetti una piccola tela del periodo olandese di Van Gogh, Coppia al lavoro nei campi, proveniente dalla Kunsthaus di Zurigo, e una delle grandi «falci e martello» realizzate da Warhol nella seconda metà degli anni Settanta, arrivata a Genova dalla città natale dell’artista, la industrialissima Pittsburgh. Al tempo stesso, però (e come si vedrà la questione non è irrilevante), le due opere non rappresentano i poli temporali della mostra. Se infatti l’opera di Van Gogh si pone davvero all’inizio di un ideale filo cronologico, essendo preceduta solo dall’Officina del gas a Courcelles, un grande quadro di Jean-Ernest Delahaye dipinto un anno prima, nel 1884, la Hammer and Sickle di Warhol – situandosi ai tre quarti dell’arco di tempo (un poco più di un secolo) abbracciato dall’esposizione – è per forza di cose seguita da svariate decine di opere realizzate nei decenni successivi, anche ben oltre il varco del millennio.
La vera pecca di quel sottotitolo, tuttavia, consiste nel lasciar cadere con falsa disinvoltura i nomi di due delle massime «icone» dell’Otto e Novecento, quasi si volesse far credere ai futuri visitatori che all’interno della mostra potranno trovare una passerella di opere – magari già ampiamente divulgate attraverso cartoline, manifesti e oggettistica varia – che, grazie alla fama di quegli autori, porterebbero anch’esse a giusto titolo l’etichetta di «capolavori».
Una dichiarazione di intenti
Ora, questo la dice lunga sulla necessità di attrarre l’attenzione del pubblico con ogni mezzo anche a costo di fraintendimenti e di delusioni, ma soprattutto rischia di mortificare l’effettiva – e studiatissima – articolazione di un allestimento che invece (e per fortuna) non solo non punta a un percorso lineare segnato da «grandi opere» disposte lungo tutto l’arco del Novecento, ma spariglia di continuo le sue carte, giustapponendo nomi famosi ad altri assai meno celebri e mescolando con tranquilla sicurezza tutti i diversi linguaggi visivi del ventesimo secolo, fotografia e cinema in primo piano.
Come in una vera e propria dichiarazione di intenti, infatti, la prima sala di Tempo moderno affianca i muscoli vigorosi di un operaio ritratto sullo sfondo di ciminiere fumiganti nell’enfatico olio di Dean Cornwell Al lavoro per l’America! al «corpo» ipertecnologico composto solo di monitor dello High Tech Baby, il «bambino televisivo» di Nam June Paik. Ma soprattutto mette a confronto, alla lettera faccia a faccia su due pareti contrapposte, due serie fotografiche: la prima, di Lewis Hine – realizzata negli Stati Uniti dei primi anni ’10 del Novecento – è dedicata al lavoro dei bambini nelle fabbriche tessili; la seconda, opera recentissima del canadese Edward Burtynsky, testimonia – attraverso immagini di grande raffinatezza – il processo di industrializzazione della Cina contemporanea.
In una sorta di cortocircuito spazio-temporale, dunque, l’Impianto di lavorazione dei polli della località di Dehui nella provincia di Jin istituisce un dialogo intessuto di affinità e di contrasti con La piccola Fannie, sette anni, alta 48 pollici, che aiuta la sorella a Elk.
Grandi depressioni
Altrettanto, se non più audaci, appaiono le «coabitazioni» delle sale successive, a partire già dalla seconda, che ha come tema il lavoro contadino: accanto alla coppia di piantatori di patate di Van Gogh, il visitatore troverà non soltanto un olio (lo Studio per il Ponte) del quasi contemporaneo Pellizza da Volpedo o la serie di immagini scattate nei primi anni del Novecento da Adriano Tournon, elegiaco cantore delle risaie vercellesi, ma anche le fotografie della Grande Depressione di Walker Evans e, a rendere più stridente il contrasto, uno degli inquietanti manichini di Tony Oursler, che in questa videoinstallazione, del 1994, bofonchia ipnoticamente le frasi di un test usato in psichiatria per diagnosticare il disagio mentale, mentre su uno schermo scorrono le immagini delle mondine di Riso amaro e le facce scavate dei contadini russi nel Vecchio e il nuovo di Ejzenstejn.
A buon diritto, insomma, Germano Celant (che insieme a Anna Costantini e a Peppino Ortoleva ha curato la mostra del Palazzo Ducale) può nel testo introduttivo parlare di «percorso fluido»: una fluidità che tuttavia non esclude alcuni punti fermi intorno ai quali si incardina l’itinerario delle opere esposte. A partire, naturalmente, dall’inizio, da quando cioè intorno alla metà dell’Ottocento il soggetto del lavoro, per secoli confinato in secondo piano, alle minuscole figure di contadini o di pescatori appena discernibili sullo sfondo di campagne lontane, «entra come argomento figurale e narrativo nell’orizzonte dell’arte, dalla letteratura alla pittura, assumendo quali protagonisti del proprio discorso la sofferenza e la lotta dei lavoratori, rappresentandone le vicende di classe e le prese di coscienza, politica e sociale». Una nuova traduzione in immagine, questa, che coincide quasi cronometricamente con l’affermarsi della fotografia e del cinematografo: difficile considerare un caso il fatto che il primo documento cinematografico mai girato per una proiezione pubblica, La sortie des usines dei fratelli Lumière, abbia avuto per oggetto, se non una fabbrica, i suoi cancelli. «Documento e racconto allo stato nascente – scrive nel catalogo di Tempo moderno Peppino Ortoleva – il cinema presta subito attenzione alle masse, ai lavoratori che costituiranno il grosso del suo pubblico, ma si concentra su di loro ‘dopo il lavoro’ come avrebbe preferito dire l’Italia fascista, o nel tempo del superfluo (leisure time) come si diceva nel mondo anglosassone: nel tempo libero insomma».
Una via indiretta al senso
Pochi anni prima, del resto, una scelta non dissimile era stata compiuta da Georges Seurat nel suo celebre Une baignade, Aisnières, dove – osserva Antonello Negri ancora nel catalogo – «le fabbriche della periferia parigina fanno da non casuale skyline, mentre in primo piano bagnanti che sono in realtà gli operai di quelle stesse fabbriche in un giorno festivo, si sforzano di ritrovare i piaceri dell’ozio e di una povera naturalità, peraltro già lievemente contaminata e artificiosa».
Vale insomma quello che ancora Ortoleva afferma a proposito di Riso amaro o di Umberto D. (ma che si potrebbe applicare anche a moltissimi film più recenti, come Il cacciatore di Michael Cimino, con le fiamme dei suoi altiforni, o il solo apparentemente «leggero» Una donna in carriera di Mike Nichols, quadro efficace del «rampantismo» anni Ottanta): «La realtà quotidiana del lavoro (o della sua mancanza) entra in generale nel racconto, per così dire, lateralmente: non pretende di farsi raccontare in quanto tale, ma acquista un senso dalle altre storie delle persone che la vivono, e al tempo stesso di quelle storie si fa ingrediente, a volte risolutivo a volte apparentemente casuale, ma a ben vedere ineliminabile».
Sta di fatto comunque che, emergendo infine all’attenzione collettiva, il lavoro (e quanto lo circonda) diventa fin da subito non soltanto soggetto privilegiato dei nuovi media, ma anche tema di continua riflessione per gli artisti delle diverse ondate di avanguardie che si succederanno nei primi decenni del ventesimo secolo, e di cui sono testimonianza alla mostra genovese opere come Le eliche di Léger o Il saldatore della velocità di Fillia, la Primavera acerba di Natalia Goncharova o il Turno di notte di Marianne Werefkin. «Abbasso l’arte come rattoppo colorato sull’esistenza insulsa dei benestanti, è tempo che l’arte confluisca in maniera organizzata nella vita, abbasso l’arte come fuga da una vita indegna di essere vissuta» proclamerà il grande sperimentatore Aleksandr Rodcenko, le cui fotografie di congegni e macchinari (Piastre rotative, Pignoni, Ruote dentate) vengono ironicamente messe a confronto con la gigantesca sega soft di Claes Oldenburg. Ma a proposito di Russia, o meglio di Unione Sovietica, Tempo moderno non dimentica di includere le esaltazioni stereotipate delle diverse prestazioni fisiche che, dalle Bluse azzurre di Viktor Perel’man agli Stroiteli di Aleksandr Dejneka, ci ha consegnato il realismo socialista. E per un curioso paradosso (che rivela, ove mai ce ne fosse bisogno, quanto l’Urss fosse in quegli anni, anche sul piano artistico e culturale, un pianeta remoto) proprio gli stakanovisti operai edili di Dejneka portano una data, il 1960, che ci avvicina per contrasto al secondo, e altrettanto cruciale, tornante dell’esposizione genovese: «A partire dagli anni Sessanta – nota Celant – la rappresentazione del lavoro, identificata nella figura dell’operaio o del minatore, dell’impiegato o del portuale, quasi scompare», mentre sulla scena tecnologica fa la sua apparizione il robot, la «macchina», che va a sostituirsi agli esseri umani nei compiti materiali. Sono gli anni in cui – rileva Anna Costantini – «il sogno modernista del progresso, industriale o tecnologico, sposato dalle avanguardie artistiche nella speranza di ‘trovare il proprio posto’, trasformerà il desiderio in nostalgia, il progetto nella ricognizione di tracce e scarti».
Il frutto di uno sguardo miope
La curatrice giustamente cita Kounellis (rappresentato alla mostra da un’opera del ’66, una vecchia macchina per cucire sospesa con una corda sopra un disegno a inchiostro dell’artista), quando afferma: «Il ferro e il carbone per me sono i materiali che meglio rievocano il mondo della rivoluzione industriale, i primordi della civiltà contemporanea… Se costruisco una carboniera, voglio rievocare quel mondo, quelle sensazioni, e cerco di farlo nel modo più attendibile e riconoscibile». L’aspetto fisico, concreto del lavoro – i carbonai di August Sander, i portuali di Federico Patellani, le Mani di lavandaia di Tina Modotti – lascia spazio alla memoria, o ai simboli. E quale simbolo più potente della Falce e martello che, tuttavia, nelle mani di Andy Warhol finisce per trasformarsi (come disse uno dei collaboratori dell’artista, Ronnie Cultrone) in una «natura morta», insieme alle lattine della zuppa Campbell e alle Marilyn seriali? Commenta Celant: «Il sovvertimento è totale, sembra quasi che la realtà del lavoro perda la sua fisicità, l’immagine, nella sua virtualità e nella sua autonomia, riesca ad affermare il suo potere svincolato dal referente».
Ma il viaggio di Tempo moderno, a dispetto di quel sottotitolo ingannatore, non finisce qui. E se da un lato ci conduce verso la scatola-prigione di vetro dell’installazione di Damien Hirst The Acquired Inability to Escape, Inverted, dall’altro non ci fa dimenticare come questa immagine asettica e smaterializzata sia anche il frutto di uno sguardo miope.
Da geografie lontane
Uno sguardo che non solo ci impedisce di vedere cosa accade, lontano dai nostri occhi occidentali, agli operai cinesi fotografati da Burtynsky o ai lavoratori al centro degli scatti di Sebastião Salgado (Donne e uomini sotto contratto caricano carbone sui camion, un lavoro sporco e sfinente, mal pagato con un salario massimo di ventidue rupie, un dollaro e 30, recita una lunga didascalia che richiama alla mente le descrizioni che Lewis Hine aveva dato delle sue fotografie ormai un secolo fa) ma rischia anche di velare vecchie e nuove forme di lavoro alle porte di casa (come il Lavavetri polacco in via Filippo Turati, Milano, o la Operazione di pulizia dello scolmatore fognario, Formigine, di Uliano Lucas). Le due direzioni del viaggio che così si configurano, per quanto diverse siano le loro espressioni artistiche, non si limitano ad alludere ma entrano di prepotenza nei problemi del lavoro, assumendo un ideale punto di congiunzione sotto il segno di Rodcenko: «Abbasso l’arte come fuga da una vita indegna di essere vissuta».