Quando al machsom la vita si interrompe

Terribile rapporto delle pacifiste israeliane sui posti di blocco per palestinesi
Arbitrio, violenza, oppressione sistematica sono il pane quotidiano nei tantissimi posti di blocco istituiti dentro i territori occupati per controllare (e in sostanza impedire) ogni movimento dei palestinesi. Che siano in possesso di regolari permessi oppure no, è lo stesso

Quando molti cominciano a coltivare l’illusione di un processo di pace che forse un giorno avrà inizio, la realtà quotidiana dell’occupazione israeliana sembra venir dimenticata. La settimana scorsa le attiviste di Machsom Watch hanno fatto ricordare agli israeliani che la repressione continua a far parte di quella realtà. In una dettagliata relazione che riassume oltre tremila rapporti su diversi incidenti verificatisi ai posti di blocco, prende forma il quadro che molti ignorano: non si tratta di attacchi o scontri armati, né di eventi particolarmente drammatici, ma «solo» della routine distruttiva dell’occupazione. Machsom significa posto di blocco dell’esercito. La parola ebraica è ben nota ai palestinesi di tutte le età. Il machsom fa parte della quotidianità di una vita trascorsa sotto assedio. Generalmente i machsom sono interni ai territori e rappresentano uno dei principali strumenti di oppressione del popolo palestinese. Nel febbraio 2001, pochi mesi dopo l’inizio dell’Intifada in corso, alcune israeliane attiviste decisero di istituire un gruppo di sole donne, con lo scopo di ridurre l’aggressività diffusa fra gli uomini. Attualmente le volontarie sono circa cinquecento, forse il maggior gruppo pacifista attivo in Israele, e la loro principale motivazione è «l’opposizione all’oppressione della popolazione palestinese. Alcune attiviste hanno deciso di `arruolarsi’ nel movimento nella convinzione che l’occupazione sia fonte di distruzione. Noi tutte proviamo una profonda vergogna per le violazioni dei diritti umani che vengono commesse anche nel nostro nome».

Per sette giorni alla settimana le attiviste escono a piccoli gruppi e raggiungono i machsom. In genere si dividono in due turni al giorno presso i machsom prescelti, cercano di intervenire e alleggerire la situazione sul posto e compilano dettagliati rapporti.

La risonanza pubblica delle attività svolte da Machsom Watch negli ultimi quattro anni è stata ampia e molti dei casi trattati sono stati discussi dalla stampa. L’esercito si è visto così costretto a tenerne conto. In alcuni casi i militari hanno reagito con ostilità e violenza, le donne sono state definite «puttane, traditrici, amiche di Arafat», ma esse rappresentano anche la coscienza che ha spinto non pochi soldati a dialoghi appassionanti e forse a interrogarsi su ciò che stanno facendo.

La creazione dei bantustans

Nel corso della conferenza stampa in cui fu presentata la relazione, le attiviste sottolinearono un punto non incluso nel rapporto annuale: il passaggio di Calandia a Gerusalemme si trasformerà in uno strumento per impedire qualsiasi tipo di contatto fra gli insediamenti palestinesi della città e il resto del territorio palestinese. I palestinesi fuori di Gerusalemme si imbatteranno in un terminal ultramoderno dove manca solo il duty free. La modernità del luogo, però, non riuscirà a nascondere che si tratta di un nuovo strumento per opprimere i palestinesi di Gerusalemme e isolarli dai loro luoghi di lavoro, dalle scuole, dalle università, dalle famiglie. La repressione e la disumanizzazione dei palestinesi si manifestano con evidenza e «noi, alcune delle quali madri di soldati, non crediamo che tutto questo si arresti alla frontiera. I giovani legittimati nell’atto di violare i diritti umani, difficilmente sapranno fare propria la cultura dei diritti umani all’interno di una società democratica».

Il cuore del machsom è costituito dalla burocrazia oppressiva dell’Amministrazione Civile (nei territori occupati la farsa si estende al linguaggio: questo è il nome del ramo dell’esercito che si occupa della repressione dei civili palestinesi) che controlla la concessione dei permessi. La libertà di movimento all’interno dei territori occupati è praticamente inesistente e sempre condizionata: i permessi, una volta ottenuti, non è detto che siano rispettati. Il rapporto cita le parole di un ufficiale secondo cui «i terroristi sanno come ottenere un permesso regolare», il che significa che chi è sprovvisto di permesso è un sospetto e non può passare il machsom, ma anche chi ha un regolare permesso è considerato tale e deve affidarsi all’arbitrio di un soldato qualsiasi.

Oltre all’attività quotidiana presso i posti di blocco, nel 2004 Machsom Watch ha presentato cento denunce contro l’esercito e la polizia. Le donne dell’organizzazione sono arrivate alla Knesset e hanno incontrato i gradi più alti dell’esercito. «Non vogliamo soltanto presentare il materiale che abbiamo raccolto, vogliamo anche che in futuro non si dica `non sapevamo, non abbiamo ascoltato’, oltre alla protesta continua contro l’occupazione».

Libertà di movimento

Hawara, machsom vicino a Nablus: un soldato afferma che bisogna fermare un palestinese su nove (6 settembre 2004). Qualche giorno più tardi (19 settembre), un altro dirà che va fermato chiunque si chiami Muhamad. Beit Iba: una coppia di palestinesi che in mattinata erano entrati a Nablus viene trattenuta per quattro ore nel machsom. Avevano lasciato il loro bambino a casa di una zia e la madre deve tornare da lui per allattarlo. È necessario l’intervento di Machsom Watch e B’tselem perché li lascino passare dopo cinque ore. Un soldato afferma: «se uno vuole passare attraverso il mio machsom e mi sembra sospetto, lo fermo per controlli senza tener conto del suo permesso». Da un altro rapporto: «Quando arrivammo a Beit Iba, c’erano novanta fermati fra donne, bambini e vecchi ed era chiaro che si trattava di una punizione collettiva. I soldati del posto ci dissero che non erano loro i responsabili e quando finalmente ottenemmo che si ordinasse l’apertura del passaggio, ebbe inizio la ricerca dei documenti di identità». 3 ottobre 2004: «A Shevi Shomron trattenevano la gente per sei ore, inclusi un bambino di tre anni e mezzo e suo padre. Quando l’uomo chiese un pezzo di pane e un po’ d’acqua per suo figlio a un soldato, questo gli rispose di farseli dare da Arafat». Una donna incinta fu costretta a mostrare il ventre. Beit Iba: un autista commise un’infrazione decisa dai soldati. «Fermalo per quattro ore, così imparerà», affermò un ufficiale con spirito da pedagogo. «Così impareranno» è una frase che le attiviste ascoltano di frequente quando gli ufficiali e i soldati sono costretti a spiegare loro o ai palestinesi il motivo di alcune disposizioni arbitrarie, come essere trattenuti chissà dove, rimanere seduti nell’immondizia, o semplicemente aspettare per ore che finisca la punizione, perché imparino a comportarsi.

La regola dell’«interruzione della vita»

È una regola non scritta e, come dice il suo nome, implica la cessazione di qualsiasi movimento nel machsom, qualunque siano i bisogni dei palestinesi. Centinaia, e in alcuni casi migliaia, di palestinesi sono costretti ad aspettare per ore l’ordine che consente di riprendere le attività. Beit Furiq, 14 luglio: centinaia sono in attesa, dal lato opposto un uomo con una flebo staccata da diverse ore a causa del sole. Non è possibile trasportarlo in ambulanza perché vige la «interruzione della vita». Permessi? «Molti palestinesi sono segnalati dallo Shin Bet (i servizi segreti israeliani) e questo è sufficiente perché gli venga negato l’accesso a qualsiasi luogo. A. è un palestinese di 34 anni segnalato dal 1997. Nel giugno del 2003 assistemmo a un passaggio durante il quale la madre di A. rimase gravemente ferita. La portarono all’ospedale di Hadassa, a Gerusalemme, e A. e il padre non ottennero il permesso di visitarla finché non intervenimmo. Quando le condizioni della donna furono migliorate, ai due uomini non fu concesso di accompagnarla per sottoporsi alle terapie di cui aveva bisogno».

Malati, vecchi e bambini

Calandia, 28 luglio: una giovane operata di recente arriva trascinata da sua madre e da un’altra giovane, sta quasi per svenire nel machsom, ma se non possiede un documento di identità azzurro (israeliano) non può passare a bordo di un veicolo. Potrebbe farlo in ambulanza, ma è molto costoso… Bei Iba: un palestinese deve trasportare a braccia il figlio malato di dodici anni perché non lo lasciano passare in automobile. E ancora, ancora e ancora… «A Ram, Gerusalemme, arriva un’ambulanza che trasporta un bambino con un grave problema al cuore accompagnato da suo padre, medico, e l’autista dice di avere il permesso di Dalia Basa, coordinatrice della Salute pubblica. Iniziano le domande e le ispezioni mentre i palestinesi cercano di spiegare che il bambino nell’ambulanza è in pericolo di vita. Interveniamo, niente di fatto. Contattiamo Dalia che afferma di non essere a conoscenza del caso e chiede dettagli e vuole parlare con l’autista dell’ambulanza per poi lamentarsi con noi della sua villania, come se in una circostanza simile fosse possibile essere educati. L’autista dice `è finita’ e noi gridiamo che non è finito niente, gridiamo, e l’agente dice al soldato di controllare l’ambulanza, viene aperto il portellone e A. (del nostro gruppo) vede il piccolo attaccato a diverse apparecchiature mediche assistito dal padre. Solo allora lo lasciano passare».

Il rapporto registra non pochi casi di violenza. Aggressioni con un cacciavite, colpi sul viso, la testa sbattuta ripetutamente contro il muro: sono solo alcuni esempi degli episodi violenti cui hanno assistito le attiviste che in alcuni casi sono riuscite a intervenire in tempo, in altri hanno dovuto accontentarsi di denunce tardive. In alcuni casi è stato l’esercito a sporgere denuncia contro le attiviste che «avevano molestato i soldati nello svolgimento delle loro funzioni». A Calandia si verificarono decine di incidenti in cui i soldati arrivarono ad aprire il fuoco. Le attiviste contattarono immediatamente tutte le autorità militari, ma queste non si allarmarono più di tanto. L’uso della violenza si manifesta in diversi modi. Il danno alla proprietà dei palestinesi è una consuetudine. Beit Iba, 7 dicembre: «questa mattina gli autisti ci hanno raccontato che, oltre a confiscargli i documenti di identità, i soldati gli hanno fracassato gli specchietti, colpito le vetture, ecc. In alcuni casi abbiamo assistito noi stesse». Palestinesi ammanettati, bendati, alcuni costretti a stare in una specie di segreta che «pensavamo fosse destinata ai detenuti per motivi di sicurezza ma, per esempio a Beit Iba, servì a una donna fermata che doveva allattare suo figlio».

La violenza dei coloni degli insediamenti si è ormai spinta fino ai posti di blocco. Nel caso siano soldati, non vogliono neanche stare ad ascoltare le attiviste o parlare con loro. In diverse circostanze le attiviste sono state attaccate dai coloni. La polizia e l’esercito non intervengono e quando lo fanno trattano le due parti come se fossero uguali, senza tenere in considerazione che tutto ha avuto inizio con l’aggressione fisica sferrata dai coloni. Fino a oggi le denunce non sembrano aver avuto un seguito. Ma non solo quando si tratta di coloni che attaccano le attiviste il sistema «non funziona». Nel corso del 2004 Machsom Watch ha inviato cento denunce indirizzate a diverse autorità. Soltanto il 13% ha ricevuto una risposta completa, nel 5% dei casi hanno accusato ricezione della presentazione, nel 30% dei casi la risposta non è stata soddisfacente e nel 52% dei casi non è stata ricevuta risposta alcuna.

Per concludere

Tutto a posto e niente in ordine. L’ottimismo di viaggiatori, politici, giornalisti, commentatori e altri non ha niente a che vedere con la realtà. È vero che negli ultimi mesi ci sono stati pochissimi scontri a fuoco e per questo la situazione appare più tranquilla, in Israele, a Gerusalemme, a Tel Aviv, o quando si tiene una conferenza stampa. Ma ci sono tre milioni di palestinesi che continuano a vivere la routine quotidiana di un’occupazione che trasforma le loro vite di tutti i giorni in un vero e proprio inferno. Sì, forse alcuni machsom sono stati lo strumento che ha impedito a qualche terrorista di raggiungere il suo obiettivo, ma in molti altri viene gettato il seme di un’oppressione che può generare soltanto altro odio e che farà germinare nuove esplosioni di terrore, di sangue e di vendetta.

(traduzione di Claudia Di Vittorio)