Quale politica europea per i disperati alla ricerca di una vita nuova?

Un viaggio di venti giorni nel Mediterraneo per ventisette persone. No, non è l’incipit della descrizione di una meravigliosa crociera, è l’inizio di una ennesima tragedia del mare, un barcone di disperati della terra proveniente dalla Libia, un carico di forme scheletriche, di uomini che non sembrano più tali, un nuovo tragico epilogo per una traversata che no, davvero per nulla, può somigliare lontanamente ad un calmo viaggio alla ricerca di una vita nuova.
Eppure è questa la meta di chi sale su una classica carretta del mare: la speranza di poter campare altrove, perché nel proprio paese è magari impossibile per via di guerre, epidemie o semplicemente perché la fame ha fatto la sua comparsa. Non sono drammi, ma sono qualcosa di più atroce, sono l’impedimento all’accesso ad un qualsiasi futuro, anche miserevole, fatto di carità e sofferenze, di vessazioni e di tribolazioni.

Chi attraversa il Mediterraneo e passa dalla piattaforma africana a quella continentale europea molto spesso non è a conoscenza del fatto che si ritroverà, se il viaggio non si trasforma nella fine fredda in fondo al mare o nel recupero del proprio corpo sulle spiaggie di Malta, della Spagna o dell’Italia, in un Centro di permanenza temporaneo dove i diritti sono un optional e la burocrazia è sovrana e non ha pietà per nessuno.

Quando un’altra imbarcazione di disgraziati tirerà su l’ancora da un porto africano o da una località del Medio Oriente, saranno già state foraggiate le tasche dei profittatori e della varie mafie che operano sulle transumanze dei migranti, di quelli che con un linguaggio sprezzante vengono definiti “clandestini” e che lo divengono non appena toccano il sacro suolo nazionale. Qui perdono anche quello che nel loro paese avevano, perdono gli affetti, perdono la possibilità di veder rispettata la loro cultura. Questo accade spesso, ma fortunatamente vi sono anche molte strutture che operano con una concezione di assistenza volta all’integrazione ed allo sviluppo di una civile convivenza non fatta di tolleranza, ma semmai di piena solidarietà.

La disperazione fa diventare gli uomini violenti, aggressivi: la lotta per un posto di lavoro può anche finire in tragedia. Viviamo situazioni in cui si erge a paradigma della sopravvivenza la legge del più forte e si annienta il potenziale usurpatore di quella meta che citavamo prima: la speranza di una nuova vita in Italia, in Europa. Già, l’Europa, questo grande progetto comunitario che non ha ancora trovato un momento per definire compiutamente una politica di accoglienza, ma che troppe volte ha eretto muri, steccati e barriere contro i migranti del sud e dell’est, contro quelli del Medio Oriente e dell’occidente africano. Un’Europa che le destre hanno caldeggiato divenisse una fortezza, un fortino dove poter sventolare anche il vessillo delle radici cristiane e, per giustificare questi campanilismi egoistici e razzisti, si è fatto esplicito, voluto riferimento alla difesa di tradizionalismi sempre più piccoli, sempre meno legati ad una visione veramente continentale della vita di ciascuna nazione.

Zapatero stesso ha commesso numerevoli errori in questo frangente, operando una politica severa e intimidatoria, schierando la marina spagnola a difesa delle pregiate isole Canarie, delle coste meridionali della penisola iberica e respingendo al mittente centinaia di migranti, di mani tese verso una Spagna che sembrava cambiata anche in questo senso, ma che ha dimostrato il contrario. Alcuni passi avanti sono stati fatti da noi con il nuovo governo, grazie anche all’apporto di Rifondazione Comunista. Ma una cosa è certà: se siamo stanchi di assistere al genocidio dei migranti la via da percorrere non può che essere multilaterale e deve, prima di tutto, trovare l’Europa disposta ad una politica di accoglienza quando non è possibile prevenire i flussi migratori. E, laddove sia invece possibile, operare per stabilire condizioni di sostegno ai progetti di rafforzamento delle economie dei paesi in via di sviluppo, sia africani che mediorientali.

Sta in questo quadro anche l’imprescindibile lotta contro ogni guerra, sia di esportazione che di autoproduzione (a questo proposito ci viene alla mente la lotta del popolo curdo in Turchia e del nostro compagno Abdullah Ocalan, tuttora rinchiuso nel carcere di Imrali dopo un rapimento operato dalla Turchia con il consenso pieno degli Stati Uniti). Si tratta, dunque, di cambiare, di invertire la rotta. Sì, di invertire la rotta in tutti i sensi, e soprattutto di quelle carrette del mare che sempre più spesso sono l’avamposto di una morte atroce.