Nella polemica sollevata dalla proposta di Bertinotti di “Patto sociale” c’è una forte obiezione di Cremaschi che mi pare inconfutabile. Dice Cremaschi che «il Patto sociale distrugge la partecipazione dal basso» «e fermerebbe la ripresa del movimento».
E’ una questione fondamentale questa che attiene all’autonomia del sindacato e dei lavoratori se per autonomia si intende la capacità dei lavoratori di valutare e misurare le proprie condizioni di lavoro e di vita con propri parametri. Il rapporto di lavoro, ove si realizza plusvalore e sfruttamento, è sempre un rapporto conflittuale, anche quando non è esplicitamente espresso con lotte e scioperi. Del resto non si capirebbe il richiamo peraltro giusto di Bertinotti fatto nella discussione col direttore del “Corriere” quando afferma che occorre «ritornare al partito d’inchiesta»; sottolineo il “ritornare” il che significa che il partito non lo è più, salvo in alcuni settori che non debbono essere considerati dei minoritari movimentisti, quando la concezione di “inchiesta” è concezione che dovrebbe investire modo di essere e di fare di tutto il partito.
Il “compromesso dinamico” con buona pace di Lombardi e Musacchio nella fabbrica è una pura astrazione come sa molto bene qualunque lavoratore dipendente.
Quando parecchi anni fa Piero Fassino segretario torinese spiegò a me assessore regionale e a Bertinotti segretario Cgil piemontese il “Patto per lo sviluppo” incontrò da parte nostra una dura opposizione e la incontrò poi nei fatti, nelle durissime lotte contro i licenziamenti in una fase inedita di caduta produttiva-ristrutturazione-riconversione, con perdite di occupazione, livelli di cassaintegrazione mai raggiunti prima.
Erano i tempi in cui Bertinotti chiedeva alla giunta regionale di sinistra di «alzare il tiro» con una politica economica e sociale alternativa e lo chiedeva peraltro in una fase costitutiva delle regioni con scarsi poteri. Fausto ricorderà qualcosa di quegli ottocento stabilimenti in crisi in quegli anni. Cos’è cambiato oggi per farsi portatore di un diverso orientamento? Su queste questioni non si cambia opinione solo perché si è al governo. Sono problemi di struttura economica e sociale che permangono nella produzione e nella società.
C’è una seconda questione che va fatta; quella di metodo. Dove mai si discutono queste “novità” politico-ideologico-culturale che regolarmente ci piombano addosso dall’alto senza un minimo di riflessione collettiva? Nessuno contesta al Segretario del partito o al Presidente dalla Camera il diritto di esprimere una propria opinione. Ma questo è un diritto anche di tutti i compagni; il diritto di avere una sede di discussione, come per esempio la conferenza d’organizzazione sempre disattesa con atteggiamenti burocratici senza trovarsi costantemente sulla testa le opinioni del gruppo dirigente nazionale che diventano tabù.
Così non è stato: su violenza-non violenza-approdo relativo e non assoluto. Formulazione da me sempre condivisa, ma poi si ritorna semplicemente ad una formulazione assoluta. Quel gran galantuomo di Maitan scrisse che non c’era stata la “par conditio” nella discussione. Ancora su rendita e profitto dimenticando l’intreccio da sempre esistente tra profitto e rendita. Per passare poi alla formulazione che essere ricchi non è una colpa quando il problema è come si è accumulata quella ricchezza e a cosa oggi è finalizzata. E ancora su “persona” e “classe” per farsi dire indirettamente da Ingrao che c’è la classe e che non è solo un fatto elettorale.
Questa è una grande e continua revisione politica, culturale, ideologica. Si ha tutto il diritto di farla. Ma il diritto di discuterla ce l’ha anche ogni compagno e non solo su Liberazione alla quale va riconosciuto obiettività ed equilibrio nel riportare le diverse opinioni.