Quale NO al referendum costituzionale del 25 e 26 giugno

Stabilire una gerarchia di valore all’interno della quale discriminare tra i diversi passaggi che stanno caratterizzando la difficile transizione italiana nella fase post-berlusconiana, apertasi con le elezioni politiche del 9 aprile e confermata dalle più recenti elezioni amministrative nelle principali città d’Italia (con la prevedibile, ma non per questo più rassicurante, eccezione di Milano) è certo operazione ardua e, per diversi aspetti, discutibile. Ognuno di questi passaggi ha concorso infatti a far maturare una consapevolezza nell’opinione pubblica intorno ai nodi fondamentali su cui ruota il dibattito politico di questa fase, a partire dai grandi temi del ritiro delle truppe italiane dal teatro di occupazione iracheno e della ridefinizione di una politica internazionale ispirata al multipolarismo, dopo i guasti dell’appiattimento berlusconiano alle posizioni dell’imperialismo statunitense, e del rilancio economico, con una politica sociale avanzata, in grado di scalzare la mistificazione dei “due tempi”, prima il risanamento poi il rilancio, e dare una risposta sul tema della lotta alla precarietà soprattutto (ma non solo) alle giovani generazioni.
Se tutto questo è vero, è anche vero, tuttavia, che il prossimo passaggio elettorale, la scadenza del 25 e 26 giugno, per il referendum confermativo sul progetto di modifica costituzionale approvato dal governo delle destre nel novembre del 2005, acquista una rilevanza fondamentale e, sotto molteplici versanti, strategica. Intanto perché consente l’occasione di completare il ciclo breve di questa transizione di fase che ha modificato gli equilibri politico-istituzionali del Paese, promettendo, nello stesso tempo, di dare forza alle componenti progressiste e più avanzate dello schieramento di centro-sinistra che compone l’attuale maggioranza; e, quindi, fatto di ancora più immediata percezione, perché consentirebbe di porre un argine non solo alla modifica costituzionale in sé, ma anche al clima di montante revisionismo post-costituzionale che, avviato sin dalla stagione lunga e greve del craxismo (con le mistificazioni sulla Grande Riforma e i passaggi successivi che caratterizzarono la transizione dalla Prima alla cosiddetta Seconda Repubblica), ha poi trovato un punto di sedimentazione con la riforma – approvata – del Titolo Quinto della Costituzione, con la quale si è introdotto l’assetto federale nella forma di Stato.
Non è un caso che tali venti di contro-riforma spirino da lontano, siano figli, cioè, di una temperie storico – culturale non di breve periodo: essi rispondono ad un’esigenza propria delle classi dominanti di ridisporre dei contenuti dell’assetto istituzionale in una maniera che sia meglio aderente alle forme e alle modalità dell’accumulazione in una fase di volatilizzazione degli scambi e radicalizzazione dei vettori della competizione inter-imperialistica (con il corollario, non secondario, della guerra imperialistica) e alla conseguente affermazione di una vulgata neo-revisionistica che tende a mettere al bando il contenuto ideale e civile che la Costituzione interpreta, di essere figlia, cioè, della Resistenza, della lotta di Liberazione nazionale, del ruolo storico giocato, nella caduta del fascismo e nella ricostruzione dell’Italia, delle forze democratiche e di progresso. Il referendum costituzionale del 25 e 26 giugno può e deve quindi diventare anche l’occasione per una ripresa in grande stile della riflessione teorico-politica, a partire dalla nostra Costituzione, su quello che ha significato l’esperienza storica della Resistenza e sulle forme e le vigenze di quella che non a caso è considerata, nell’Occidente capitalistico, la Costituzione più avanzata.
E questo è stato anche l’intento di un ciclo di seminari organizzati, nelle scorse settimane, a Napoli, dall’Istituto per gli Studi Filosofici, che, anche grazie alla collaborazione di una giovane associazione di giuristi democratici (“Tertium Datur”), ha rilanciato alcune riflessioni sulla Costituzione, richiamando alla partecipazione civica, al dovere del dibattito pubblico e all’esigenza di votare NO all’appuntamento con il quesito referendario. Già nel primo incontro, tenuto lo scorso 16 giugno, Gianni Ferrara, costituzionalista emerito, segnala i termini di un progetto di modifica costituzionale “impresentabile” perché viola il medesimo principio di fondo del parlamentarismo, che è la corretta articolazione dei poteri, che sono completamente sbilanciati, viceversa, nella modifica proposta dai “saggi (?) di Lorenzago” sulla figura del premier, titolare di una investitura assoluta da parte del corpo elettorale, del potere di scioglimento della Camera e del potere di fissare persino l’ordine del giorno della discussione parlamentare; anzi, di un progetto di modifica che potrebbe, senza forzature, definirsi “incostituzionale”, perché usa l’art. 138 della Costituzione vigente non per una revisione ma per una riscrittura complessiva del testo (54 articoli modificati), perché formalizza la devoluzione e la competenza regionale esclusiva su scuola, sanità e polizia locale, violando il principio sancito dall’art. 3 della uguaglianza materiale dei cittadini nei loro diritti e nella fruizione dei servizi fondamentali dello Stato sociale; e perché, infine, viola il medesimo principio cardine delle democrazie rappresentative, il principio di rappresentatività, abolendo il primato del Parlamento quale organo titolare del potere legislativo e sede della rappresentanza popolare, con il nuovo art. 70 che codifica il potere di impulso legislativo nella figura del Capo del Governo (tra l’altro non depositario di alcun voto di fiducia da parte delle Camere e neanche vincolato, a norma di questa modifica costituzionale, alla presentazione di un programma politico intorno al quale consolidare la propria coalizione, il cui vincolo alla figura del leader è, pertanto, di natura extra-politica, personale, di interesse o di ricatto). Senza dimenticare che, come ha messo ben in luce Vincenzo Atripaldi, tale progetto di revisione costituzionale “attenua il sistema di garanzie individuato dal Patto Costituzionale del 1948, sottraendo poteri al Presidente della Repubblica, politicizzando il ruolo della Corte Costituzionale e mettendone in discussione l’autonomia dal potere politico”.
Su questa contro riforma quale “Tentativo di stravolgere il Patto Costituzionale del 1948” (come da titolo della sua prolusione), l’Atripaldi si è dilungato nel secondo di questi appuntamenti nel ciclo di conferenze testé citato, tenuto il 20 giugno nella sede dell’Istituto, e in cui sono emersi, anche per il contributo di giuristi e docenti di diritto coinvolti, ulteriori contenuti di pericolosità e di eversività del testo in discussione: a partire dal sovvertimento dell’impianto socio-centrico (cioè basato sul primato della società rispetto allo Stato, opzione conseguente alla tragedia del totalitarismo fascista) della Costituzione del 1948, la cui articolazione pluralistica è fortemente minacciata dall’esorbitanza del ruolo dell’esecutivo, dalla politicizzazione degli organi di controllo e di garanzia (esautorati in gran parte delle loro funzioni, si pensi ancora al caso della Presidenza della Repubblica) e dal vincolo maggioritario che lega l’esecutivo alla sua maggioranza, sempre sottoposta al ricatto dello scioglimento anticipato. Per non parlare di altri aspetti “illeggibili” del testo proposto, dal senato federale (in cui, tuttavia, i rappresentati regionali non hanno diritto di voto) al principio della tutela dell’interesse nazionale (frutto di una mediazione evidentemente incapace di arrivare a sintesi tra il centralismo della destra post-fascista e il particolarismo della destra leghista). Di una destra, articolata e composita, regressiva e reazionaria, che palesemente, una volta di più con questo progetto di controriforma, mostra di non essere figlia ed erede di quella esperienza, anzi di collocarsi al di fuori della storia del costituzionalismo repubblicano: di quali eredità politiche sono il prodotto e di quali interessi sociali sono espressione, di volta in volta, la Lega Nord piuttosto che Forza Italia o Alleanza Nazionale?
Per questo molto interessante è stato il passaggio offerto dall’appuntamento, il terzo di quelli ricordati in apertura, del 19 giugno alla presenza di Raffaele Tecce, neo-senatore di Rifondazione Comunista, Eugenio Donise e Leonardo Marino, organizzato in collaborazione con il Centro Culturale “La Città del Sole”. Tutti i presenti hanno messo in luce il nodo politico e culturale autentico di questo referendum: come cioè trasformare l’appuntamento referendario in un passaggio utile non solo a dire NO alla controriforma delle destre ma soprattutto a rilanciare il tema dei contenuti, del rafforzamento e dell’avanzamento della democrazia, che, nello spirito dei più avveduti tra i Costituenti, doveva trovare proprio nella Costituzione repubblicana antifascista, nei suoi articoli fondanti 1, 3, 11 su tutti, il motore del suo sviluppo. Si tratta cioè di fare, ancora oggi, a sessant’anni di distanza, della Costituzione il presupposto per la ricomposizione di una forza politica e culturale autenticamente di sinistra, in grado di sollecitare ed egemonizzare una mobilitazione popolare non occasionale, nella direzione della attuazione, più che della difesa sterile o lambiccata, del dettato costituzionale, per delineare un orizzonte autentico di democrazia progressiva e di conquiste sempre più significative di eguaglianza e di giustizia sociale.
Votare NO al referendum del prossimo 25 e 26 giugno è anche un modo per non perdere questa occasione ed inserirsi nel solco delle migliori espressioni, politiche e culturali, di progresso della nostra storia repubblicana, della nostra identità democratica.