Qualche risposta ai critici

Penso anche io, come Sergio Cararo, che la discussione sviluppatasi sul merito della missione in Libano ‘Unifil 2’ metta in evidenza alcuni punti “paradigmatici”, che non rinviano semplicemente all’interpretazione di determinati fatti ma mettono in gioco culture politiche differenziate, ancorché presenti all’interno del movimento contro la guerra – in particolare sul suo versante antimperialista. Per questo reputo giusta, oltre che politicamente utile, la scelta da parte del sito de L’Ernesto di raccogliere una serie di interventi sul tema, comparsi in rete in chiave critica all’indomani della pubblicazione dello scritto ‘Perché non siamo contrari alla missione Unifil 2’. Ciò mi consente di aggiungere alcune rapide osservazioni, nella consapevolezza che stiamo trattando di questioni e scelte tutt’altro che semplici, dove per intenderci si decide sulla base di un prevalente. Sono comunque ancora convinto che – nel merito concreto della discussione – tale prevalente dia ragione alla posizione da me sostenuta.

Innanzitutto, ripropongo la domanda posta da Stefano Franchi verso la fine del suo intervento: cosa sarebbe successo SENZA la risoluzione 1701? Quindi, senza la missione militare, ma anche senza il ‘cessate il fuoco’. Opportunamente, Franchi nota che il governo Olmert era (ed è) posto sotto pressione da destra e che l’unica alternativa che era dato intravedere da quella parte era la prosecuzione del conflitto. Un conflitto già durissimo per la popolazione libanese; ma certamente duro anche per la resistenza di Hezbollah. Che Israele sia stato fermato militarmente da questa resistenza è fuor di dubbio. Ciò non vuol dire che si sarebbe configurata di lì a poco una vittoria militare definitiva. Si tratta di valutazioni concrete che devono essere verificate sul campo. Lo stesso Hezbollah ha ufficializzato il dato di 600 morti (cui vanno aggiunti i feriti) su un totale complessivo di qualche migliaio di combattenti. Nel merito, dovrebbe anche risultare significativa la dichiarazione rilasciata dallo stesso leader di Hezbollah – e riportata anche sui giornali occidentali – secondo cui non era stata preventivata la reazione israeliana a tutto campo alla cattura dei due soldati. E’ insomma evidente che la resistenza libanese non “accoglie a braccia aperte” la missione e che giustamente essa non ha la minima intenzione di essere disarmata. Ma è altrettanto evidente che la soluzione adottata è, nel contesto dato, il frutto di una mediazione per essa accettabile e senza alternative migliori: ciò che le consente tra l’altro di capitalizzare la sua efficacia militare in termini di diffuso consenso politico. Di qui l’atteggiamento prudente e “non ostile” nei confronti di una missione il cui carattere ed esito non vengono preventivamente dati per scontati.

Questa posizione “possibilista” (il termine è di Cararo e non lo ricuso) si differenzia da quella di chiara contrarietà espressa da alcuni partiti comunisti, tra cui lo stesso Pc libanese e il Pc israeliano, in occasione della recente riunione di Atene. Non è questione da poco. Certamente non lo è per un’area come la nostra, per chi come noi considera tali forze un “riferimento naturale” (Martocchia). D’altra parte, nell’ultimo quindicennio non è la prima e la sola volta che si evidenziano valutazioni o prese di posizione difformi su temi specifici. Stiamo provando a restituire consistenza politica ad una prospettiva comunista e continuiamo a considerare un valore in sé ogni passo avanti nella direzione del più ampio coordinamento possibile tra le forze comuniste, in Europa e nel mondo (sta qui, in fondo, la sostanza della nostra critica alla Sinistra Europea: divide e non unisce). Nel merito della questione, concordo con la parte analitica e i giudizi fondamentali contenuti nel documento conclusivo di Atene; condivido le forti preoccupazioni ivi espresse, ma, per le motivazioni che ho sin qui addotto, trovo astratto il secco rifiuto di Unifil 2.

C’è in proposito un punto di fondo che non può essere aggirato e che, invece, permane come una sorta di “convitato di pietra” in tutta questa discussione: sto parlando della partecipazione cinese alla missione. E’ per me sorprendente che si faccia correttamente l’elenco dei partiti comunisti critici e si glissi però sul consenso che arriva dal più grande partito comunista del pianeta. Una simile sottovalutazione si presenta come un lapsus decisamente meritevole di attenzione: non foss’altro per il fatto che dietro ogni lapsus si cela un problema reale. Non intendo certo aprire qui una discussione sulla Cina: ci troveremmo in un nuovo ginepraio ed è bene affrontare una discussione per volta. Dico che si può pensare della Cina quel che si vuole; ma, in relazione al nostro tema, non si può minimizzare la decisione cinese di partecipare ad ‘Unifil 2’. Una decisione politica rilevante che va ben valutata. Come è noto, questa partecipazione (oltre a quella di russi e Paesi “islamici”) è stata espressamente richiesta da Chirac. Perché? Perché li ritenga tutti compatibili con una missione imperialista? O, piuttosto, perché gli interessi imperialisti della Francia richiedono un rapporto con i cosiddetti “Paesi emergenti” che è concorrenziale rispetto agli Usa (e quindi a Israele)? E, in ogni caso, perché cinesi e russi avrebbero accettato di partecipare alla missione? Se le cose stessero come le mettono i critici integrali, ritengo che si sarebbero ben guardati dall’accettare di assumere un ruolo diretto sul campo. Oppure si pensa che cinesi e russi siano disponibili a “disarmare Hezbollah”? Io penso di no. E credo che tale presenza possa mettere tutti in una migliore condizione per far fronte ai rischi della missione (che pure permangono, essendo nell’immediato legati agli umori della “guerra permanente” e all’evolvere della crisi iraniana): missione che deve quindi mantenere quel carattere di interposizione che il segretario dell’Onu ha proclamato. Penso che, come questa stessa vicenda è in grado di mostrare, l’entrata in campo di Paesi “terzi” possa sparigliare le carte dei progetti di dominio planetario, sia in generale sotto il profilo di nuovi rapporti di forza interstatuali sia in relazione al confronto interimperialistico Usa/Ue. Non tener conto di tali “contraddizioni oggettive” conduce, a mio parere, a valutazioni schematiche: si finisce cioè per guardare ad un mondo omogeneo e privo di crepe, quasi fosse una sorta di “impero toninegriano”.

Mi rendo altresì conto del fatto che questo genere di considerazioni risulti indigesto a quanti vedano la soggettività rivoluzionaria e le resistenze di popolo come antagoniste e refrattarie a qualsiasi protagonismo statuale. Movimenti sociali e resistenze sarebbero per definizione incompatibili con ogni forma di dialettica e conflitto interstatuali (e, a maggior ragione, interimperialistici). Silvio Serino – e con lui, immagino, i compagni di Red Link – giunge a spingere tale esternità, nonché la stessa “autonomia dei comunisti”, fino al punto di proporre un giudizio radicalmente critico sulla partecipazione dell’Unione Sovietica alla seconda guerra mondiale. Niente Stalingrado, dunque: sarebbe stato meglio che i due imperialismi se la fossero vista tra di loro. Non intendo qui argomentare attorno a un giudizio che reputo del tutto sbagliato, oltre che insostenibile dal punto di vista storico. Osservo di passaggio che l’Unione Sovietica, neanche volendolo, avrebbe potuto starne fuori: dal momento che era già nel mirino di Hitler, così come delle altre potenze europee. Scegliere un’alleanza equivaleva, in quel contesto, a evitare la catastrofe. Ma, tornando all’oggi e alla nostra questione, vedo all’opera il medesimo schema di ragionamento, che giudico spontaneistico (sottovalutazione del ruolo degli stati) ed estremistico (sottovalutazione della funzione e importanza delle alleanze, anche per una politica di classe). In definitiva, non sposto di un millimetro la critica all’ambiguità politica di chi, perdendosi negli interstizi di una compagine di governo, rinuncia a riconoscere il ruolo delle resistenze di popolo. Ciò non mi impedisce nel contempo di ritenere che l’esistenza e l’efficacia di queste ultime siano inevitabilmente connesse a tutto il complesso dei fattori in gioco.

La stessa cosa vale per i movimenti di massa. Sergio Cararo, ad esempio, pur condividendo un giudizio critico sulla missione e argomentando in nome della “soggettività dei movimenti”, vede lucidamente che al varo di ‘Unifil 2’ è sotteso un non trascurabile mutamento delle condizioni oggettive, riconducibile all’impasse dell’unilateralismo statunitense. Tuttavia egli distingue tra lo “scenario oggettivo” e le “scelte soggettive”, dei “soggetti sociali” i quali non possono limitarsi a contemplare la realtà. Penso anch’io che l’autonomia del movimento contro la guerra debba essere salvaguardata, che esso debba incalzare il governo e non subirne i condizionamenti per il tramite delle forze politiche che vi partecipano (come è senza dubbio successo e continua a succedere qui in Italia, anche nel mio partito). Resta però il fatto che un giudizio politico, un’azione politica non si esaurisce unicamente entro l’ambito di operatività dei movimenti di massa. Credo che quanti, del tutto comprensibilmente, mettono in guardia dall’effetto di “espropriazione del movimento” prodotto dall’entrata in scena di emanazioni statuali, dovrebbero anche riflettere sul fatto che il più grande movimento di massa del dopoguerra è sì riuscito a delegittimare politicamente ed eticamente l’attacco Usa all’Iraq, ma non è riuscito a fermarlo. Non c’è insomma un’autosufficienza dei movimenti.

Queste ultime osservazioni offrono il destro per un’ulteriore notazione sulla congiuntura politica italiana e, all’interno di questa, sullo stato del movimento contro la guerra. Accetto la sollecitazione di Andrea Martocchia: non puoi sottrarre questa discussione al condizionamento delle questioni interne. E reputo importante esprimermi anche in merito all’accentuazione critica contenuta negli interrogativi proposti dallo stesso Martocchia: “chi rappresentiamo, noi”? Quali sono i tratti distintivi della nostra soggettività politica? Non rischiano di dileguare, assieme al legame con altri partiti comunisti e con parte del movimento contro la guerra? Come si traducono in prassi le nostre “buone intenzioni”?
Si può e si deve discutere su una determinata scelta, ma qui ho l’impressione che la vis polemica tracimi al di là del merito. Andrea non può non sapere che da sempre siamo stati presenti e abbiamo dato il nostro (limitato e parziale) contributo al movimento contro la guerra. Lo siamo stati con una linea ed un intento precisi: contribuire a costruire un movimento di massa contro la guerra il più ampio possibile e, NEL CONTEMPO, contribuire a rafforzare in esso l’opzione antimperialista. Si tratta di due elementi essenziali e indissolubili. Non abbiamo mai ritenuto di dover alimentare posizioni unilaterali: sia, ovviamente, quelle più inclini al moderatismo ed ora più soggette ai condizionamenti del quadro politico-istituzionale (per intenderci, le stesse che hanno condotto una parte del movimento a sfilare dietro il demenziale cartello “Forza Onu”); ma anche quelle tendenti al settarismo, tendenti cioè ad anteporre alla costruzione di un movimento di massa forte e plurale l’esclusività delle proprie parole d’ordine. Autonomia e, insieme, unità del movimento di massa: queste le due nostre stelle polari. Come Andrea sa, ciò non ci ha impedito di essere in piazza quando lo abbiamo ritenuto necessario, anche in assenza del nostro partito. Per tutta una fase questa linea ha conseguito risultati significativi: ha mobilitato un grande movimento plurale, al cui interno il versante antimperialista ha potuto svolgere un ruolo di orientamento e, in parte, di egemonia.
Oggi il quadro generale è mutato in peggio (non certo perché noi lo abbiamo voluto) e assistiamo ad una fase di riflusso dei movimenti. Ricordo a Martocchia che, pur in presenza di valutazioni divergenti, siamo stati presenti e abbiamo assistito all’assemblea in preparazione della giornata del 30 settembre prossimo. Al di là del merito della vicenda ‘Unifil 2’, rispetto a cui come è ovvio la riunione ha espresso all’unanimità le sue valutazioni, dovrebbe far meditare la composizione dei partecipanti: Rete dei Comunisti e Forum Palestina, partito dei ferrandiani, Iraq libero e Campo antimperialista, Red Link, Carc, Che Fare… Può darsi vi sia chi si compiace di tale (omogenea?) condensazione di sigle: ma sono sicuro che i compagni più attenti e lucidi sono consapevoli del fatto che anche una siffatta composizione è l’espressione di un grave limite, di un’involuzione del movimento contro la guerra e, insieme, della capacità dei comunisti di praticare una vera politica di massa. Per questo proveremo a proseguire un confronto a 360 gradi su ciò che oggi ci differenzia e a potenziare i punti di accordo, in vista di un superamento della fase di difficoltà: non si tratta di una “buona intenzione”, esistono le condizioni oggettive e soggettive per un nuovo scatto in avanti. Si tratta di tessere pazientemente i fili della politica. A cominciare da due obiettivi immediati di mobilitazione, destinati a segnare il carattere e gli esiti della missione ‘Unifil 2’ : il ritiro dei soldati italiani dall’Afghanistan, la denuncia del patto di cooperazione militare italo-israeliano.

Un’ultima considerazione. Io penso che al fondo delle anzidette difficoltà vi siano le grandi questioni di merito che campeggiano sulla scena del mondo e, rispetto ad esse, il divergere di opinioni e culture politiche. Non nego tuttavia che queste stesse difficoltà siano esaltate dalla congiuntura politica italiana e dai diversi atteggiamenti nei confronti dell’attuale governo. Nel merito, l’orientamento di ‘Essere comunisti’ non è cambiato: siamo stati facili profeti nell’indicare i rischi che comportava l’assenza di più nette condizioni per la partecipazione del Prc al governo; pur non condividendo le posizioni pregiudizialmente antigoverniste del compagno Ferrando. Oggi ci muoviamo nel contesto della partecipazione del Prc ad un governo a suo tempo presentato come alternativa alle destre. Condividiamo la preoccupazione di molti compagni per il carattere impresso all’azione di governo, anche sul terreno delle politiche economiche e sociali, ben lontana dai propositi di svolta e discontinuità proclamati in campagna elettorale; su questo, non staremo certo a guardare. Resta comunque il fatto che la nostra collocazione NON è quella di chi è pregiudizialmente stato ed oggi continua ad essere fuori e contro questo governo: una collocazione sin dall’inizio e legittimamente propria di molti compagni e pezzi del movimento, ma che non è stata e non è la nostra. Nostro compito è continuare a svolgere un’azione critica e di presidio politico per impedire che la partecipazione del Prc alla coalizione governativa si traduca nella corresponsabilità con politiche antipopolari. A tal fine siamo impegnati a mantenere vivo il confronto all’interno del Prc, provando a rafforzare il profilo di classe di questo partito e opponendoci risolutamente ad eventuali processi di annacquamento di tale profilo: in quest’ottica, l’esistenza e il rafforzamento del Partito della Rifondazione Comunista, con il suo programma e i suoi simboli, rappresenta di per sé un antidoto rispetto a qualsiasi progetto tendente a costituire a sinistra un nuovo ceto politico moderato (che non allarghi l’efficacia, ma al contrario soppianti l’autonomia del Prc) e ad ipotecare da destra il rapporto del partito stesso con il governo. Compito certo non agevole, ma ineludibile.