Un interessante contributo a un dibattito serrato e scevro da pregiudizi sugli sviluppi della situazione in Russia.
Russia. Centralizzare per decentralizzare, uno Stato forte che limiti i poteri forti e permetta poteri diffusi: questi gli slogan che il presidente potrebbe fare suoi
La guerra (fredda) continua. Il messaggio del maresciallo Badoglio sembra essere il principio ispiratore dei commenti, prese di posizione, analisi di giornalisti, politici la cui unica stella pare essere che la Russia sia comunque un pericolo anche nella sua forma postsovietica, mai ai loro occhi sufficientemente democratica. Ma tutto ciò ha una ragione; con il non mai abbastanza esorcizzato ottobre del 1917, venne alla luce un animale politico anfibio: per la prima volta, un movimento politico rivoluzionario di origine socialista riusciva a raggiungere i vertici di uno Stato, completando con la conquista del potere statale un’onda lunga anti-capitalistica iniziata nell’Ottocento.
Questa duplicità – l’essere movimento politico anti-capitalista e Stato – pose grandi problemi agli stessi bolscevichi: i due poli del problema li ritroviamo pari pari, infatti, nell’oscillazione tra due opposte strategie, da quella offensiva dell’invasione della Polonia nel 1920, a quella “difensiva” del “Socialismo in un Paese solo”. La prima improntata al ruolo rivoluzionario della Russia sovietica, la seconda attenta alla conservazione dello Stato sovietico, ideologicamente giustificata dalla necessità di resistere all’accerchiamento, per poi riprendere la spinta rivoluzionaria, ma in realtà una svolta a partire dalla quale la ragion di Stato della Russia sovietica avrà la preminenza sulle esigenze “rivoluzionarie”. Ed infatti l’esito vittorioso della Seconda guerra mondiale sarà la costruzione di una cintura di influenza intorno alla Russia sovietica, in cambio del riconoscimento dello status quo nel resto d’Europa. La Russia rivoluzionaria era stata sostituita da uno Stato che si muoveva secondo una logica di potenza geopolitica, non per questo meno pericoloso nella competizione mondiale.
A metà degli anni Ottanta, quando Gorbaciov propose un armistizio, rinunciando proprio a quella cintura di Paesi-satelliti, pegno della vittoria voluto da Stalin e impostando la fuoriuscita dal totalitarismo con la separazione di partito e Stato, e l’introduzione di riforme di mercato, gli Stati Uniti e, più in generale tutti i Paesi occidentali, prodighi di promesse e di discorsi, furono del tutto avari di aiuti concreti. Naturalmente venne argomentato che quegli aiuti sarebbero stati inutili, e che l’obiettivo di riforma di Gorbaciov era una mission impossibile. Ma una maggiore conoscenza della storia avrebbe dovuto rendere cauti: anche il vecchio Joseph Kennedy (il padre del presidente), ambasciatore a Londra all’inizio della Seconda guerra mondiale, e parti consistenti dell’establishement americano, sostenevano che era inutile aiutare l’Inghilterra contro Hitler, e indubbiamente se Roosevelt non l’avesse fatto sarebbe diventato davvero inutile.
Il fatto è che questo mancato aiuto a Gorbaciov aprì la strada alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e al decennio caotico che seguì. L’obiettivo strategico era chiaro. Alcuni uomini vicini a Gorbaciov si chiedevano se un’URSS stabile e cooperativa non sarebbe stata meglio, per gli stessi USA, di una Russia instabile e affamata. Sottovalutavano evidentemente due cose: la voglia di vendicarsi dei passati settanta anni di paura della sovversione comunista, e il timore della potenza geopolitica che una Russia stabilizzata avrebbe comunque potuto esercitare. Ma per quanto con piedi d’argilla, il gigante russo restava e resta pericoloso per ragioni squisitamente geopolitiche. Non è male ricordare che il giovane Marx era a favore del libero scambio in quanto vi vedeva la leva per scalzare le oligarchie ancien régime e introdurre condizioni capitalistiche, che avrebbero sviluppato il proletariato (e avvicinato la rivoluzione socialista). Marx faceva due errori: primo, sottovalutava la capacità delle oligarchie di patteggiare con le potenze economiche “cosmopolite” emergenti per diventare le maggiori beneficiarie dell’apertura, e bloccare lo sviluppo desiderato da Marx (l’esperienza sudamericana degli ultimi centocinquant’anni è emblematica); secondo, Marx sottovalutava la capacità di una strategia listiana (dal nome dell’economista tedesco Friedrich List, che primo la propose, dopo un soggiorno negli Stati Uniti allora – metà del XIX secolo – non ancora convertiti al verbo liberista) di creare proprio quelle condizioni di sviluppo capitalistico da lui desiderate.
Una strategia listiana è stata alla base dello sviluppo di grandi late-comer come Germania, Giappone e Italia. Una strategia listiana è stata alla base dello sviluppo prima della Russia zarista, come ha raccontato lo storico Gerschenkron, e poi della Russia sovietica. Si tratta ora in Russia di riprendere, riammodernandola, la strategia listiana naufragata nell’assolutezza irriformabile del piano. Fu l’inscindibilità dei due lati della rete di governo (pianificazione e partito) che convinsero Gorbaciov (come, prima ancora, aveva convinto i massimi esponenti della scuola di riforma delle economie pianificate, i polacchi Brus e Laski, allievi dei grandi economisti polacchi Lange e Kalecki) che il sistema era irriformabile e si poteva quindi solo scindere partito e Stato, aprire al pluralismo dal lato politico e al mercato dal lato economico.
La Russia è enorme e c’è spazio per tutto il mercato che si vuole, ma solo una visione d’insieme può aiutare a far crescere quei pilastri di un sistema economico che difficilmente il mercato da solo può riconoscere come strategici nel lungo, se non addirittura nel lunghissimo periodo. La strategia listiana va ripresa a partire dal mercato, non contro il mercato; noi italiani in particolare dovremmo essere attrezzati per capirlo: l’Iri del dopoguerra, fino agli anni Sessanta, ha avuto in Italia un simile ruolo strategico; ed è grazie a quella strategia che l’Italia è diventata una potenza industriale (anche se la smemoratezza liberista odierna l’ha dimenticato). Chi è minacciato da una simile strategia? Non certo il mercato e la concorrenza in generale, bensì quegli agenti sul mercato che della mancanza di regole fanno la ragione della loro crescita, interessati a tenere lo spazio russo permeabile a tutte le influenze, obiettivo che è primario interesse di Putin contrastare.
Questo dà conto di una polemica costante di parte statunitense sugli inestirpabili arcaismi della Russia, oppure delle polemiche contro la battaglia putiniana contro gli oligarchi in quanto pericolosa per il “pluralismo”, oppure dei ricorrenti timori sull’irreversibilità della scelta di mercato della Russia. E’ comprensibile come a questi spunti polemici si accodino i nostri liberal-liberisti prima antisovietici poi antirussi in servizio permanente effettivo. Meno comprensibile che a questa polemica partecipino settori di sinistra nostrani poco attenti sia ai reali problemi di trasformazione della Russia, sia ai concreti potenziali interessi geopolitici dell’Unione Europea nei confronti della Russia.
Putin: l’azione
Quando Putin è prima diventato capo del governo e poi presidente della Repubblica russa al posto di Yeltsin si è trovato di fronte ad una situazione drammatica: politica, economica e sociale; si trattava semplicemente di ricostruire una statualità russa che non esisteva più od era esistita solo nella versione sovietica, fermare il processo di disintegrazione economica e sociale, ridare una speranza effettiva di sviluppo economico ai cittadini russi, restituire alla Russia un ruolo importante negli affari mondiali. Come è facile capire, non erano compiti che potessero essere affrontati né nello spazio di mesi, né di pochi anni, né nello spazio di un decennio. Se si hanno chiari questi punti di partenza, diventa più semplice ed anche più intellettualmente onesto giudicare quello che è stato fatto dalla presidenza Putin, senza lasciarsi prendere da un atteggiamento che è molto comune in occidente fra le forze progressiste: e cioè di giudicare attraverso le lenti di un gorbaciovismo che non ha mai elaborato il lutto del fallimento riformista di Gorbaciov e che giudicando Putin come una variante se non un continuatore dello Yeltsinismo degli anni Novanta, continua a non voler vedere né i limiti dell’operare di Putin né i suoi meriti nel contesto storico in cui opera, di fatto congiungendosi nel giudizio con i corifei di un liberalismo tradito che sarebbe soffocato nella realtà russa dall’operare di Putin e dei siloviki (uomini dell’ex KGB), rigettando l’esperienza postsovietica nella condanna storica del sempiterno autoritarismo russo in una catena che semplicisticamente va da Ivan il Terribile, passando per Pietro il Grande, ai Romanov, a Lenin, Stalin e Putin.
Se ricordiamo che nell’agosto 1998 la Russia era percepita da quasi tutti gli osservatori come un Paese economicamente sull’orlo di un baratro economico e politico, la ripresa economica dell’economia russa negli anni successivi è sicuramente degna di rispetto: la crescita è stata forte, ed anche quest’anno si prevede che sarà oltre il 7% e le previsioni per i prossimi due anni sono dello stesso ordine di grandezza. Il quadro macroeconomico è stabile, la bilancia commerciale è in considerevole avanzo, l’inflazione è sotto controllo ed in tendenziale diminuzione. Come si legge in ogni articolo che si occupi dell’economia russa, le ragioni della crescita sono attribuite alla svalutazione del rublo ed all’alto prezzo del petrolio sui mercati internazionali. Questo è sicuramente vero; ma questa crescita da molti era stata giudicata di breve periodo, chiamando l’economia russa economia virtuale in cui la maggior parte delle imprese distruggeva valore aggiunto, gli scambi fra imprese erano svolti attraverso il baratto e le imprese accumulavano pagamenti arretrati non pagando tasse, salari e contributi.
Sono passati ben pochi anni e quasi più nessuno parla di economia virtuale, il baratto fra imprese è diminuito così come l’ammontare degli arretrati. Sono bastati quattro anni di svalutazione del rublo che ha ridato competitività all’economia russa, la rimonetizzazione dell’economia ed un periodo di ragionevole stabilità politica garantita dalla presidenza Putin ed un prezzo medio per il petrolio russo intorno ai ventotto dollari per cambiare completamente le prospettive dell’economia russa. E’ vero che l’economia russa è una economia dipendente dai settori petrolifero ed energetico ma, come è affermato dall’ultimo rapporto della World Bank, cominciano ad apparire segni di espansione in altri settori manifatturieri e quindi cominciano ad apparire i primi segni di una effettiva modernizzazione dell’intero settore manifatturiero. In questo quadro economico, tutto sommato soddisfacente, si sollevano grandi preoccupazioni per il significato politico dell’affaire Khodorkhovsky, per l’attuale crisi bancaria, l’omicidio del giornalista dell’edizione russa di Forbes Klebnikov, e per l’impasse della crisi cecena, presi ciascuno come esempi della deriva autoritaria della presidenza Putin.
Per quanto riguarda il problema Khodorkhovsky la questione è molto semplice: non si tratta d’altro che della continuazione della battaglia dell’amministrazione Putin contro quel gruppo di magnati che nei turbolenti e drammatici anni Novanta si sono impadroniti di larga parte dell’economia russa con mezzi per niente ortodossi – avvicinabili al furto ed alla rapina – con l’appoggio dell’amministrazione yeltsiniana. Khodorkhovsky è l’ultimo di una lunga lista di tycoons che hanno perso gran parte del loro potere all’interno della Russia: Gusinsky, Potanin, Beresovsky, Abramovich.
Qualunque sia la ragione, e molte ne vengono avanzate, per cui l’amministrazione Putin ha deciso di porre sotto accusa il petroliere, è evidente che le classi dirigenti russe hanno deciso che parti essenziali dell’economia russa non possono essere governate da persone che hanno costruito le loro fortune in modo piratesco, ma che soprattutto hanno voluto essere potere politico sotto Yeltsin ed ancora vogliono mettere in discussione e sfidare il potere politico centrale. Il pensiero politico liberale non ha niente a che spartire con gli oligarchi russi, anzi qualunque liberale degno di questo nome sarebbe dalla parte dell’amministrazione Putin nella sua battaglia contro l’oligarchia economica. Era dalla parte di Putin anche il direttore della edizione russa della rivista economica americana Forbes, Paul Klebnikov che è stato ucciso probabilmente per avere pubblicato nel 2001 un libro contro gli oligarchi e per avere pubblicato recentemente i nomi dei 100 più ricchi cittadini russi che non sono per niente amati dal popolo russo. Chi ha ucciso Klebnikov ha sicuramente voluto attaccare Putin e la sua politica di riforme.
Il sistema bancario russo nel mese di luglio è stato scosso dalle difficoltà di alcune piccole banche private che avevano problemi di liquidità; ma non si tratta come è stato detto da più parti di una crisi del sistema bancario. In realtà probabilmente ci troviamo di fronte ad una salutare shake up di un sistema troppo frammentato che comprende più di mille banche, spesso sottocapitalizzate e che spesso appartengono a gruppi finanziari che conducono affari non sempre limpidi e trasparenti. E’ anche probabile che tutto questo preluda ad un ruolo sempre maggiore delle due più grandi banche russe, la Sberbank e la Vneshtorgbank, che sono di proprietà statale nel finanziamento dell’economia russa, assumendo un ruolo che le banche di interesse nazionale hanno svolto in Italia nel dopoguerra.
Per quel che riguarda la preoccupazione circa il controllo dei media, questa ha sicuramente un certo fondamento: l’ultimo licenziamento di due noti commentatori televisivi testimonia questa tendenza; è indubbio che allo stato attuale la democrazia russa abbia dei tratti che la fanno somigliare a quello che alcuni studiosi chiamano “managed democracy”. Può essere solamente una mossa difensiva di Putin in un momento in cui probabilmente la Russia sta andando incontro ad un periodo di riforme molto importanti, come quella del sistema bancario, del sistema di welfare di origine sovietica, dell’esercito, dell’assetto oligarchico dell’economia, tutte misure che cambieranno la vita dei cittadini russi nel prossimo futuro. In un momento difficile e probabilmente decisivo può essere una tentazione difficilmente resistibile per l’amministrazione Putin minimizzare il dibattito interno ed il dissenso.
Questo non significa né che si è tornati a tempi pre-gorbacioviani né a quelli yeltsiniani: in Russia si vota, internet funziona, i partiti esistono, esiste una ricchezza di giornali e riviste, i cittadini russi viaggiano in tutto il mondo; la Russia non dà sicuramente l’impressione di essere un Paese che sta regredendo a forme più antidemocratiche ed incivili di quelli precedenti, bensì soffre di problemi di crescita che sono tipici di ogni paese al suo livello di sviluppo.
Putin: la prospettiva
Se è sbagliato aprire un credito illimitato a Putin (che non a caso gli viene dato entusiasticamente da Berlusconi), bisogna anche dire che mentre su Putin è legittimo sospendere il giudizio, sugli oligarchi il giudizio è netto e immediato: da loro non può nascere alcuna democrazia. Prima di diventare il presidente del New Deal, Franklin Delano Roosevelt scrisse un libro programmatico in cui effettuava una sintesi originale dei due filoni classici della politica statunitense: quello hamiltoniano, centralizzatore, e quello jeffersoniano, de-centralizzatore. Centralizzare per decentralizzare, uno Stato forte che limiti i poteri forti e permetta poteri diffusi, questi erano gli slogan rooseveltiani: potrebbero essere quelli di Putin?
Non sappiamo se, limitato lo strapotere degli oligarchi, Putin costruirà le condizioni per una reale democratizzazione della vita pubblica russa. Ma sappiamo di sicuro che il potere degli oligarchi è lo strapotere del “liberismo” senza regole, da cui non si procede certo verso quello del “liberalismo” attento ai limiti, ai contrappesi del potere, come garanzia per i diritti individuali. Putin va incalzato per quello che farà dopo aver avuto ragione degli oligarchi, non per impedirgli di batterne lo strapotere: questa è la differenza tra la critica della destra liberista, nostalgica della guerra fredda, e della sinistra, sia che si voglia liberale oppure no. Putin dovrà affrontare seriamente il problema di allargamento democratico che è stato segnalato con urgenza dai sommovimenti ieri in Georgia e Ucraina, e oggi in Kirghisistan. Putin ha all’interno un consenso molto vasto, è urgente che trasformi questo consenso in forme di partecipazione maggiormente democratiche.
A suo tempo, Yeltsin alzò la bandiera della democratizzazione radicale e vinse contro le esitazioni di Gorbaciov, che però voleva costruire una democrazia basata su regole certe. Il risultato fu un sistema in cui il potere era, se possibile, ancor più incontrollato e oligarchico (anche se il controllo sul territorio era invece minimizzato) che nella Russia sovietica. Anche Putin deve riflettere sulla possibilità che la bandiera della democrazia sia alzata oggi di nuovo da chi vuole la dissoluzione della Russia; una possibilità che difficilmente può essere contrastata semplicemente arroccandosi. E’ ovvio che solo il proseguimento del progetto riformista in corso in Russia, pur con tutte le sue ambiguità, può costituire il presupposto per la formazione di una forma di alleanza economica e politica fra Unione Europea e Russia. Le forme istituzionali sono da inventare, ma deve essere chiaro che solo la formazione di un blocco centro-europeo che abbia chiari i propri interessi economici, politici ed anche culturali, può avere una parte nel gioco dei prossimi vent’anni nello scontro fra USA e Cina.