Puntare al coinvolgimento nel movimento

Fa discutere questo movimento no global. La definizione è sicuramente non appropriata ma serve ad intenderci. Ne sta discutendo Rifondazione, come al solito, con una impostazione che guarda un po’ troppo agli equilibri interni. Ne discute il manifesto col difetto, forse dovuto ai titoli accademici dei coinvolti nel dibattito, di un voto comunque da assegnare. E ne discute la borghesia che conta. Non Scalfari e il suo giornale, vero e proprio partito che rappresenta, però, solo se stesso, ma Il Corriere della sera, la Stampa, Il sole 24 ore che sull’argomento hanno fatto scendere in campo i loro commentatori di punta. A tutto questo vanno aggiunti i contributi di intellettuali di rango, non tutti, ma è normale, all’altezza della fama di cui godono. Che compaiono un po’ dappertutto. Per quanto ci riguarda come Rifondazione la preparazione di Genova e poi Genova, ci hanno tolto di mezzo un dibattito che rischiava di avvitarsi su se stesso, quello sul libro di Revelli, sul quale, alla fine, al centro, era rimasta solo l’interpretazione autentica del pensiero di Revelli. Se si condividono le previsioni quasi unanimi, sul fatto che questo movimento è destinato a durare nel tempo non possiamo esimerci da qualche ipotesi sul suo prevedibile futuro. Non si tratta di dotarsi di una palla di vetro ma, più semplicemente, di fare politica (che non è tanto l’arte del compromesso quanto quella della previsione). Un solo dato ci sembra acquisibile fin da ora: se questo movimento continua, si amplia consentirà a centinaia, forse migliaia di giovani di fare una esperienza indispensabile per la formazione di una nuova leva rivoluzionaria. Una esperienza che è mancata, e se ne pagano le conseguenze, alla generazione che è seguita a quella che “aveva fatto il ‘68”. A noi pare che il dibattito che c’è stato finora, compreso quello dentro Rifondazione, sia stato troppo condizionato dai drammatici e tragici fatti di Genova. Tutti hanno detto che non si può restare prigionieri di tutto ciò che riguarda la violenza ma, alla fine, non c’è articolo, riflessione più ampia, che non si sia inchiodato davanti a questo problema. Un indubbio successo per il governo Berlusconi anche se poco convinti sia stato un obiettivo perseguito con fredda determinazione.

Un’analisi.
Non è facile ma se ne può sintetizzare i caratteri peculiari: è internazionale nel senso che, dappertutto nel mondo dove si sono tenute riunioni simili nel loro significato simbolico a quella di Seattle, si sono verificate manifestazioni di protesta con partecipazione crescente di cittadini del paese ospitante quella determinata riunione, ma anche con partecipazione crescente di stranieri; ha una sua piattaforma programmatica, quella stilata e votata a Porto Alegre; si tratta di un insieme di proposte e di richieste che non caratterizzano in senso classista questo movimento ma che, tanto per essere chiari, rendono incompatibile la sottoscrizione di questa piattaforma a qualsiasi partito che faccia parte del governo di un paese dell’Ocse; cresce, manifestazione dopo manifestazione, come soggetto antagonista riuscendo sempre ad individuare nuove e più incisive forme organizzative e di lotta; Genova con la costituzione di servizi propri di pronto soccorso, di difesa legale, di controinformazione (filmati, fotografie ecc.), ma anche di abbozzi di servizio d’ordine rappresenta un salto di qualità rispetto a tutte le esperienze precedenti. Meno difficile è rilevare ciò che questo movimento ha prodotto: tutti i governi dei paesi capitalistici avanzati devono ormai fare i conti con un movimento in ascesa che esce enormemente rafforzato da due prove durissime, Goteberg e, sopratutto, Genova; la capacità di tenere assieme tutte le sue componenti in frangenti così difficili ne legittima vieppiù il ruolo politico; evidentissime le difficoltà dei governi dei paesi capitalistici a fronteggiarlo; è vero che si tratta di difficoltà nei soli giorni in cui chi governa si mette in mostra, ma nessun governo può rinunciare all’esercizio della sua autorità perché la piazza glielo impedisce; di colpo, per centinaia di migliaia, milioni di individui, è diventato socialmente inaccettabile ciò che per anni lo è stato: i tagli al welfare, i lavori precari, le pensioni incerte, il diritto ai profitti sulla pelle di chi muore di malattie o di lavoro, il diritto a speculare, a non pagare le tasse ecc.

Il nostro ruolo.
E’ dalla prevedibile direzione di questo movimento che deve derivare il ruolo che dovremmo svolgerci dentro come partito. Se diamo per scontato che le ragioni sociali, economiche e politiche che lo tengono insieme non sono modificabili a breve scadenza, per intendersi non c’è alcuna ripresa economica in vista, tale da poter dispensare risorse ai bisogni sociali, dobbiamo dare per scontato che questo movimento non è destinato ad esaurirsi per mancanza di motivazioni. Ma un movimento che è riuscito a impedire ai governi di “governare come nel passato”, e intendiamo l’impossibilità dei governi di esercitare la loro indiscussa autorità nei giorni previsti per i vertici contestati, si trova, che lo voglia o meno, in una situazione di permanente instabilità: o riesce a imporre la propria iniziativa ben oltre gli appuntamenti dei vertici o è destinato a rifluire, a essere politicamente sconfitto. Sconfitta che può avvenire in molti modi: attraverso la costituzione di un fronte, come si dice, bipartisan che lo isola, con pratiche che potremo definire militari che lo disarticolano e via dicendo. Se si è d’accordo su quanto detto, allora il problema di un partito come il nostro, che vede nel conflitto un mezzo indispensabile all’emancipazione sociale, non può che essere quello di puntare al coinvolgimento nel movimento del proletariato, intendendo come proletariato tutte le forme odierne di lavoro sfruttato. Solo con l’entrata in scena, in prima persona, del proletariato, l’impossibilità di governare in tre o quattro fine settimana l’anno, già di per sé inaccettabile, è destinata a creare le condizioni per una contestazione che ha mille motivi quotidiani per manifestarsi: non pensiamo solo ai rinnovi dei contratti di casa nostra, ma ai quotidiani licenziamenti che avvengono in tutto il mondo (fra l’altro, in multinazionali che nel mondo hanno lo stesso nome), al lavoro che si tende a rendere ogni giorno più precario, ai salari insufficienti, al generale attacco allo stato sociale e via dicendo. E allora, per concludere: il nostro problema non è quello di conquistare l’egemonia del movimento (la cosa fa un po’ ridere, come se qualche scarlatta parola d’ordine facesse arrivare cortei di lavoratori alle sedi dei vari social forum) né, tanto meno, cercare di far digerire al movimento parole d’ordine riguardanti il mondo del lavoro. Il nostro problema oggi è far di tutto perché entrino a far parte di questo movimento tutte le forme organizzate del moderno proletariato nella consapevolezza che l’avvenire del movimento non si gioca nel movimento. Si gioca in tutti i luoghi di lavoro dove sta ai nostri iscritti, ai nostri simpatizzanti convincere che la condizione per riaprire una prospettiva di superamento di questo sistema passa per una adesione cosciente, a pieno titolo, a questo starordinario movimento internazionale. Per riaprire, non allarmino le parole, una prospettiva rivoluzionaria.