Nessuno ha dubbi a Gaza: Israele sta per scatenare una operazione militare che andrà avanti per mesi, che seminerà morte e distruzione e punterà ad abbattere il governo guidato dagli islamisti di Hamas. Eppure girando per le strade del campo profughi di Jabaliya o del quartiere «bene» di Rimal, regna la calma anche se sulla bocca della gente c’è un solo interrogativo: quando scatterà l’invasione vera e propria? In ogni caso pochi sembrano averne paura. Nell’animo delle persone convivono temerarietà e rassegnazione. Migliaia di donne, nelle città e nei campi profughi, ieri hanno affollato panetterie e supermarket per procurarsi quantità di generi di prima necessità in grado di coprire i bisogni delle loro famiglie per alcuni giorni. «Ho comprato farina, latte in polvere e un po’ di scatolette. Non sono sufficienti, ma sappiamo resistere e quello che ad altri basterebbe solo per qualche giorno, a noi palestinesi basta per settimane», racconta Umm Butheina, madre di cinque figli, uscendo da un negozio. Ad un paio di chilometri di distanza, altre donne si affannano ad acquistare verdure e legumi secchi al mercato generale. «Io ho la possibilità di spendere, mio marito è un autista delle Nazioni Unite e viene pagato regolarmente. Tante altre donne invece non hanno soldi per comprare il cibo ma c’è sempre qualcuno disposto ad aiutare i più bisognosi», dice Reema Abdul Shafi, riferendosi alla crisi finanziaria dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e alle decine di migliaia di dipendenti pubblici che da mesi non ricevono lo stipendio a causa del blocco, decretato da Israele, dei fondi palestinesi generati dalla raccolta dell’Iva e dei dazi doganali.
La maggioranza della popolazione civile è sicura di poter superare questa ennesima crisi con Israele e sembra temere più di tutto la mancanza di energia elettrica. L’aviazione dello Stato ebraico ha bombardato infrastrutture civili martedì notte, tra cui tre ponti, in particolare quello di Nusseirat, tra Gaza city e Khan Yunis, e, soprattutto, ha distrutto l’unica centrale elettrica della Striscia. «I caccia israeliani hanno sganciato sei o sette missili contro la centrale – spiega Fawzi Hasuni, un tecnico – stiamo ancora valutando l’entità dei danni ma è evidente che ci sarà da ricostruire tutto, ci vorranno settimane, forse mesi. Sappiamo però che 600-700mila persone sono senza elettricità». Al momento solo i palestinesi del nord e del sud di Gaza hanno la corrente elettrica, perché sono serviti direttamente dalle centrali israeliane. A temere di più sono gli ospedali. Per il funzionamento dei generatori autonomi è necessario il gasolio che presto potrebbe diventare merce rara a Gaza, come già accaduto nei mesi scorsi a causa della chiusura da parte di Israele del valico di Karni.
I militanti dell’Intifada intanto si preparano ad affrontare le forze nemiche che pure sono superiori per mezzi e tecnologie. Il «pericolo esterno» ha avuto l’effetto di azzerare i contrasti tra le fazioni palestinesi e nelle strade di Gaza girano assieme militanti di Al-Fatah (il partito di Abu Mazen) e di Hamas che sino a qualche giorno fa si scambiavano raffiche di mitra. Lungo la strada costiera che da nord arriva fino a Deir Balah sono spariti improvvisamente i posti di controllo della polizia ordinaria e al loro posto sono apparsi quelli gestiti da giovani armati e con il volto coperto. «Gli israeliani non verranno a fare un picnic a Gaza, troveranno l’inferno ad attenderli. Non abbiamo paura del martirio, siamo pronti a morire», assicura Fayez, 21 anni, con le insegne della Jihad islamica sulla sua uniforme mimetica. Secondo fonti locali negli ultimi due giorni i militanti dell’Intifada avrebbero nascosto mine anticarro, prodotte artigianalmente a Gaza, lungo le arterie che dovrebbero percorrere i carri armati israeliani per entrare nei centri abitati palestinesi. Gli arsenali si sono svuotati e centinaia di combattenti ben addestrati hanno preso posizione nei punti strategici. «Gli israeliani hanno aerei e carri armati contro i quali non possiamo fare molto, ma se verranno nelle nostre città per combattere strada per strada, allora riporteranno a casa nelle bare molti dei loro soldati», afferma con tono sicuro Abu Mujahed, dei Comitati di resistenza popolare, l’organizzazione che ha rivendicato il sequestro di Ghilat Shalit.