Proviamo a fermarlo, Boycott Bush

La campagna di boicottaggio contro la guerra è già partito negli Stati Uniti. In Italia le prime azioni di disobbedienza: cosa si può evitare di comprare

E’ noto che i signori della guerra sono per definizione abbastanza impermeabili ai richiami morali, sia quando provengono da autorità ampiamente riconosciute, come il Papa, che quando vengono dalle persone comuni, anche se si tratta di un movimento che non ha precedenti nella storia, in quanto a dimensioni e transnazionalità. E’ però altrettanto noto quanto i governi più autoritari e blindati siano sensibili dalle parti del portafoglio.
Il filone del consumo critico è parte importante del movimento globale e le campagne di boicottaggio hanno al loro attivo importanti vittorie. Furono infatti i boicottaggi che si allargarono a macchia d’olio dai campus statunitensi a dare una forte spallata al regime sudafricano dell’apartheid, così come le bene orchestrate campagne contro gli interessi industriali della famiglia Marcos aiutarono a far cadere il suo regime dittatoriale nelle Filippine. La strategia è stata spesso utilizzata anche dagli ambientalisti per fare pressione sulle singole corporation – come per esempio contro la Shell, rea di avere inquinato il delta del Niger e sostenuto il governo militare nella repressione delle popolazioni locali – o dai gruppi di attivisti per i diritti umani, che hanno lanciato campagne contro l’utilizzo del lavoro minorile alla Nike o contro l’invasione di latte in polvere nel Terzo mondo sponsorizzata dalla Nestlé.

Una campagna di boicottaggio, però, non s’improvvisa, nemmeno sull’onda di un’emozione così grande come quella suscitata dall’inizio dei bombardamenti. Il boicottaggio deve essere mirato su alcuni prodotti scelti con cura, per riuscire a protrarlo nel tempo – fino a danneggiare economicamente l’azienda – e per non sbagliare mira, danneggiando chi, magari, non c’entrava niente.

Quale bersaglio?

Apparentemente i bersagli più facili contro cui rivolgere un boicottaggio nel caso della guerra in Iraq sono le aziende che ci guadagnano di più, come quelle che producono armamenti. Si tratta di veri e propri giganti come la Lockeed Martin, la Boeing, la Bae system, la Raytheion, la Northrop Grumman e la General Dynamics, solo per citare i leader mondiali del lucroso affare delle armi di distruzione, di massa o meno. Immediatamente, però si profila un problema, conseguenza di un sostanziale paradosso: le più grandi industrie degli armamenti della più grande potenza neo-liberista – tutte statunitensi tranne la Bae – non sono soggette al regime della domanda e dell’offerta, e non sono quindi assolutamente influenzabili dalle scelte dei consumatori. Le corporation che producono missili, aerei, bombe, sistemi informatici e via dicendo, vivono di commesse governative e, al massimo, si diversificano stilando contratti con “governi amici”, che però difficilmente possono scegliere di “comprare altrove”. Il giro d’affari è talmente enorme che ovviamente le corporation non hanno interesse a diversificare, cioè a investire nella produzione di merci più accessibili ai consumatori normali. Con la sola eccezione della Boeing, che produce anche pannelli solari, tutte le altre sono iper-specializzate e non si può certo immaginare di lanciare una compagnia di boicottaggio che consigli di non comprare la rampa missilistica della Lockeed o il sistema di puntamento della General Dynamics.

La lista nera
Come fare allora? Un sistema alternativo è quello di penalizzare le compagnie che hanno finanziato la campagna per la cosiddetta “elezione” del presidente Bush. La campagna internazionale “Boicotta Bush” – http: //www. boycottbush. net/ – fornisce un elenco dei nomi delle aziende che hanno appoggiato il presidente, completo dell’ammontare delle donazioni elettorali. Fra le prime dieci ci sono la Mbna, con 3 milioni di dollari, la Philip Morris, con 2.9 milioni, la Microsoft, con 2.4, e la Bristol Myers Squibb, con 2.1 milioni. Seguono a ruota Pfizer, la defunta Enron, Citigroup, Time Warner/Aol, Amway, Glaxo SmithKline, Exxon Mobil, News Corp e General Electric, tutte con donazioni al di sopra del milione. Al di sotto c’è praticamente rappresentata tutta la Corporate America – come i militanti statunitensi chiamano l’asse del potere corporativo: Bp Amoco, American Airlines, Chevron Texaco, Revlon, PepsiCo, Walt Disney, Texas Utilities, Coca Cola, Ford e General Motors, solo per citare le più note.

Si tratta di aziende che operano in differenti settori, dagli alimenti alla cosmesi, dal farmaceutico alla finanza, dall’industria dell’intrattenimento ai trasporti e combustibili, cosa che, ovviamente, rende il boicottaggio più complicato anche perché, ognuna di queste aziende, si diversifica in molteplici prodotti. La Philip Morris, ad esempio, oltre alle sigarette è attivissima nel settore alimentare con marchi come Kraft, Cracker Barrel e Toblerone. Si tratta insomma di una presenza invasiva e difficilmente aggirabile che spinge i militanti inglesi a consigliare non soltanto le marche da boicottare ma anche i prodotti alternativi, naturalmente più legati al mercato locale. La cosa, però, non funziona sempre. Talvolta il prodotto alternativo non ha la coscienza tanto più pulita del prodotto bersaglio. Se infatti è facile decidere di non comprare più nessun cosmetico della marca Revlon, è più difficile boicottare il principale marchio della Exxon Mobil, ovvero Esso, senza incorrere in qualche altro nome poco digeribile come BP Amoco o Chevron – finanziatrici di Bush – o Shell e Total, oggetto di altri boicottaggi internazionali per i loro affari sporchi con le dittature militari in Nigeria e Birmania.

Boicottaggio italiano
La strategia scelta dal Centro nuovo modello di sviluppo, pionieri del consumo etico e da anni autori di una guida al Consumo critico che esce ogni anno aggiornata in tempo reale, è quella di concentrarsi solo su quindici prodotti. Per avere successo, come si è detto, una campagna deve essere commisurata alla realtà nazionale – ovvero alle alternative presenti nel paese – e deve concentrarsi su alcuni prodotti proprio per evitare di disperdersi in un irrealizzabile boicottaggio totale. Il fine ultimo non è quello di vendicarsi ma di “fare più male”, cioè causare dei visibili cali di vendita che si traducano in perdite sensibili. Meglio quindi lasciare fuori qualche prodotto, magari le marche più pervasive e quindi difficilmente aggirabili, ma lasciare un segno che getti nel panico gli uffici vendite di qualche nota multinazionale.

Nell’elenco proposto dal Centro nuovo modello – che si trova in http: //www. peacelink. it/campagne/boycott_bush. html
– ci sono alcuni dei finanziatori elettorali repubblicani oggetto della campagna internazionale insieme ad alcuni prodotti che hanno a che fare con le ditte più compromesse con l’esercito statunitense e con quello israeliano, visto entrambe le forze armate utilizzano gli stessi fornitori.

Evitate quindi le Sottilette Kraft dell’Altria, la maionese e le salse Liebig della Campbell, il detersivo Soflan della Colgate Palmolive, le banane della Del Monte e quelle della Dole, multinazionali che in America Latina hanno parecchi scheletri nell’armadio, la carta igienica Tenderly della Georgia Pacific e la carta Scottex della Kimberly-Clark, il tonno e le sardine Mare Blu della Heinz, gli assorbenti e tamponi Carefree della Johnson & Johnson e quelli Linex della Procter & Gamble, insieme all’Anitra Wc della Johnson Wax e ai prodotti da bagno Badedas della Sara Lee. Tenetevi lontani anche dai cioccolatini M&M’s della Mars e dai cereali Kellogg’s dell’omonima azienda, legata alll’Halliburton, la corporation del vice-presidente Cheney che farà affari d’oro nella guerra e nella successiva ricostruzione.

Per le bevande si consiglia di boicottare il Gatorade, prodotto di punta della Pepsi Cola, e l’onnipresente Coca Cola, che già comincia a registrare i primi pesanti danni collaterali nei paesi musulmani. Infine, per la partecipazione della Exxon alla guerra ma non solo, è già in corso un boicottaggio specifico contro la Esso lanciato da Greenpeace – www. greenpeace. it/stopesso.