PROTESTE IN LIBIA CONTRO IL GOVERNO ITALIANO: LE RAGIONI DI UN RISENTIMENTO

Nel dibattito politico internazionale, a partire dagli inizi di febbraio, è stata preponderante la tematica di un presunto “conflitto di civiltà” alimentato da tempo nel seno del mondo arabo ed esploso con le mobilitazioni seguenti la pubblicazione di vignette, su un quotidiano danese, “offensive” nei confronti dell’Islam. Com’era da aspettarsi, la Lega, pezzo fondamentale dell’ormai uscente governo italiano, non ha potuto fare a meno di mostrare, se qualcuno ne avesse ancora bisogno, il suo animo assolutamente sprezzante di ogni diversità, contribuendo a surriscaldare il clima attraverso il ministro Calderoli che, in una trasmissione televisiva, ha mostrato orgogliosamente il suo sentire raffigurando le vignette imputate in una maglietta da lui indossata. Ciò ha provocato una drammatica reazione, questa volta del popolo libico, che ha portato a duri scontri con la polizia di fronte all’ambasciata italiana e ad undici morti. Tuttavia, come giustamente suggerisce Farid Adly , almeno un elemento induce ad estrapolare o, quantomeno, a differenziare quest’ultimo fatto dalla più generale questione, e ciò concerne l’ultra trentennale occupazione coloniale italiana in Libia con la conseguente resistenza di popolo sviluppatasi, principalmente, proprio in Cirenaica e a Bengasi. E’, dunque, opportuno approfondire, limitatamente allo spazio concessomi, almeno alcune delle ragioni storiche di tanto risentimento.

1. Con la caduta di Crispi, seguente alla sconfitta di Adua del 1896, l‘Italia modificò la sua politica estera, nel senso che, pur rimanendo all’interno della Triplice, assieme all’Austria e alla Germania, abbandonò la linea filotedesca seguita nel decennio precedente e avviò un maggiore dialogo con la Francia. Si giunse così, nel 1898, alla firma di un nuovo trattato di commercio attraverso cui si pose fine alla ormai decennale “guerra doganale” e, nel 1902, alla stipulazione di un accordo per la divisione delle sfere d’influenza nell’Africa settentrionale. L’accordo riconosceva all’Italia il diritto di priorità sulle due province ottomane di Tripolitania e Cirenaica che, peraltro, costituivano l’unico territorio disponibile sulla costa nordafricana, mentre, alla Francia, veniva lasciata mano libera sul Marocco. Quest’ultima mossa favorevole ai francesi, tuttavia, risultò sgradita alla Germania, così come, per parte sua, l’Italia non subì di buon grado l’annessione della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Austria-Ungheria, con l’appoggio dei tedeschi, nel 1908. Nello specifico, la modalità in cui era stata condotta tale annessione (unilateralmente e senza consultazioni all’interno della Triplice) metteva in evidenza il posto di secondo piano occupato dall’Italia all’interno dell’alleanza.
In appena un decennio, dunque, il sistema internazionale degli stati andava modificandosi attraverso Trattati, accordi ed annessioni, preludendo a nuovi scenari che, nel breve volgere di sei anni, sfoceranno nel Primo conflitto mondiale. L’Italia, pur giocando un ruolo in questo quadro, non era una “potenza”, al pari degli altri attori internazionali, ma solo uno Stato che, timidamente, vantava le proprie prerogative. Tuttavia, la manifestazione sempre più palese del ruolo subalterno che il sistema le assegnava, produsse tensioni all’interno della società e del mondo politico nostrano che rispolverarono antichi rancori e complessi di inferiorità: ciò, se per un verso contribuì a riaccendere le rivendicazioni sulle terre irredenti del Trentino e della Venezia Giulia, per un altro fece emergere la richiesta di un ruolo forte per l’Italia in campo coloniale .

2. A sostegno di questa ipotesi si schierò gran parte della società italiana, con la sola esclusione di Salvemini, di parte dei repubblicani, dei radicali e dei socialisti (e nemmeno di tutti, considerando che ci furono illustre defezioni, dal parlamentare Bissolati, a Labriola, a Giovanni Pascoli che, addirittura, considerò la Libia “continuazione della terra natìa” ). In seguito, sorse e si affermò un movimento nazionalista che, inizialmente raccoltosi attorno a circoli intellettuali e a riviste, verso la fine del 1910 si diede una struttura organizzativa stabile con la fondazione dell’Associazione nazionalista italiana. L’organizzazione era piuttosto eterogenea nella sua composizione, ma ben presto emerse un gruppo imperialista e conservatore che dalle colonne del nuovo periodico romano “L’idea nazionale” iniziò una forte campagna per la conquista della Libia, incentrata sulle presunte ricchezze naturali esistenti nel territorio africano. Questi trovarono potenti alleati nei gruppi cattolico-moderati legati alla finanza vaticana e in particolare al Banco di Roma, da anni attivo in un’opera di penetrazione economica in Libia .
Infine, all’interno del mondo istituzionale, un ruolo importante in questo senso ebbe Ferdinando Martini, primo governatore civile dell’Eritrea. Nelle sue intenzioni, si sarebbe dovuta impostare una vera e propria politica coloniale e, a tal fine, nel 1906 diede vita all’Istituto coloniale italiano (ICI), in cui si raccolsero diverse lobbies pro-coloniali con lo scopo di persuadere il governo sulla necessità dell’impresa. Già a partire dal maggio 1908 l’ICI, trasformatosi in ente morale, inizierà a beneficiare di un contributo statale di £ 17 000 ripartito tra: Ministero degli esteri (£ 10 000), colonia Eritrea (£ 5 000) e Ministero dell’agricoltura (£ 2 000). Tali somme, cui vanno aggiunti due contributi extra di £ 1 000 e £ 1 500, rispettivamente da parte del Ministero degli esteri e della colonia Eritrea, elargiti per la gestione della biblioteca, saranno utilizzati per estendere l’interesse italiano per l’Africa, soprattutto attraverso pubblicazioni e convegni, con il coinvolgimento di rappresentanti del mondo coloniale italiano .

3. Al di là del compattamento del fronte interno, tuttavia, la causa scatenante l’intervento in Libia derivò da vicende di politica internazionale. Infatti, quando nell’estate del 1911 gli sviluppi della “crisi marocchina” portarono la Francia ad imporre il suo protettorato sul Marocco, l’Italia decise di far valere gli accordi stipulati nel 1902 e, nel settembre 1911, inviò sulle coste libiche un contingente di 35 000 uomini, provocando la reazione dell’Impero turco “formalmente” sovrano su quel territorio.
La guerra che ne derivò fu più lunga del previsto, poiché gli italiani dovettero scontrarsi non solo con l’esercito regolare ottomano, ma anche con una compatta resistenza politico-religiosa tesa a difendere la “terra d’Islam” ; ciò spinse l’Italia a rinforzare il corpo di spedizione portandolo addirittura a 100 000 unità, e solo l’anno seguente, nell’ottobre del ’12, i turchi acconsentirono a firmare la pace di Losanna, rinunciando alla sovranità sulla Libia ma mantenendo l’autorità religiosa del sultano sulle popolazioni musulmane. Di fatto, però, la pace ebbe effetti diversi nelle due province della Tripolitania e della Cirenaica. Nella prima, infatti, seppur il Colonnello Miani, al comando delle colonne d’invasione italiane, riuscì facilmente ad entrare, la sua “fu una marcia in mezzo ad acque che gli si aprivano davanti per richiudersi alle spalle della sua colonna e quando la marea rifluì gli Italiani ne furono sommersi” , poiché s’imbatterono nelle popolazioni autoctone di cui riuscirono ad avere ragione solo dopo un gran spargimento di sangue e, soprattutto, grazie alle divisioni delle tribù avversarie. In Cirenaica, invece, la resistenza, non solo continuò ad essere sostenuta dalle guarnigioni turche, ma soprattutto venne abilmente inquadrata nella Confraternita islamica senussita, costituitasi nel 1843, che la organizzò e diresse. Di conseguenza, il dominio italiano poté esercitarsi, e con molte difficoltà, solo in una parte del territorio libico e, comunque, in modo sempre più precario per la riluttanza della popolazione al giogo coloniale.

4. Un aspetto poco conosciuto della politica coloniale italiana in Libia riguarda la deportazione di un gran numero di prigionieri della guerra del 1911-12. Sul tema, fa luce un puntiglioso lavoro del Moffa , fondato quasi totalmente sui lavori di un’Ispezione del gennaio 1912, e di una successiva Inchiesta a carico del Direttore della Colonia Barbangelo di agosto, a cura dell’ Ispettore Generale di Pubblica Sicurezza Adolfo Lutrario .
Iniziato subito dopo la rivolta di Sciara Sciat, il trasferimento forzato coinvolse i libici in maniera indiscriminata: molti, infatti, erano gli ultrasessantenni e i ragazzi sotto i sedici anni. Il fenomeno riguardò parecchie migliaia di arabi, la maggior parte dei quali furono trasferiti presso le isole Termiti. Emerse qui, drammaticamente, il problema dello spazio: i prigionieri, infatti, erano costretti dentro grotte, cameroni e stalle, e in condizioni igienico sanitarie pessime; a nulla valsero le proposte più o meno interessate da parte di autorità politiche o economiche periferiche finalizzate a dislocare i deportati in altre colonie e carceri, poiché, probabilmente per ragioni di sicurezza carceraria, il governo si oppose.
Oltre lo spazio fisico entro cui rinchiudere i prigionieri, un problema a se costituì l’alimentazione. Cibo e acqua, infatti, erano quantitativamente e qualitativamente insufficienti, e ciò, se da un lato era ispirato dalle le stesse direttive governative che incitavano a contenere le spese alimentari, dall’altro fu anche un prodotto del peculato delle autorità periferiche e della pressoché totale mancanza di controllo delle dirigenze centrali sulla distribuzione effettiva della merce. La scarsa alimentazione e le indicibili condizioni detentive indubbiamente influirono sulla diffusione di una serie di malattie da cui furono colpiti i prigionieri.
Col dramma dei deportati si relazionarono due “soggetti”, ovvero lo Stato (dal capo del governo ai funzionari), di cui abbiamo parlato, e la comunità locale, in cui si inseriva, gioco-forza, la vicenda. Questa, nella sua quasi totalità, mantenne un approccio razzista, vedendo più la deportazione come un’occasione per migliorare la propria condizione (magari rubando vari oggetti per o dei prigionieri); tale atteggiamento era, in qualche modo, anche incoraggiato dall’alto: la pietas, infatti, rischiava di apparire come “timore del diverso”, e ciò rischiava di incrinare la disciplina carceraria. L’odio, invece, era un utile strumento, non il solo, per mantenere l’equilibrio; altri, invece, erano costituiti dal tentativo di dividere il fronte avverso (ad esempio costituendo una maggioranza di reclusi senza alcuna funzione ed una minoranza di “sfruttati-privilegiati” addetta a lavori vari) o di portare a sé diversi arabi collaborazionisti pronti a vestire i panni degli intermediari, a tutto vantaggio della “causa” italiana. Tuttavia, non tutti i deportati si piegarono alla collaborazione, anzi possiamo dire che si creò una vera e propria “resistenza” sia verso gli Italiani che verso i compagni traditori.
Ad ogni modo, il territorio che passò sotto la sovranità italiana, si rivelò uno “scatolone di sabbia”, secondo la definizione che allora ne diede Salvemini. Infatti, le tanto decantate ricchezze naturali risultarono pressoché inesistenti , e anche l’emigrazione della popolazione italiana disoccupata, argomento centrale nella propaganda nazionalista, di fatto non si realizzò.

5. Già prima che l’Italia entrasse nel Primo conflitto mondiale, diverse difficoltà in Libia spingevano per il ritiro di gran parte del suo contingente: l’incontrollabilità del territorio vista in precedenza limitava, di fatto, il dominio italiano solo a Tripoli, Bengasi e poche altre città dove, in ogni caso, le truppe vivevano assediate. In particolare, poi, stabilendo di entrare in guerra, era impraticabile l’ipotesi di gestire due fronti per un paese che già difficilmente poteva occuparsi di uno, Quindi, si decise per un ritorno effettivo delle guarnigioni: tra il gennaio e l’ottobre 1915 ci si ritirò definitivamente dall’interno, mentre nell’aprile del 1917 si giunse ad una tregua con le formazioni senussite nota come il modus vivendi di Acroma.
Nel 1922, divenuto capo del governo, Benito Mussolini, raccolse le spinte più fortemente nazionaliste che avevano sostenuto l’impresa libica e accompagnato la fine dei governi liberali, mirando, per questa via, a ricostituire il glorioso Impero romano: “fu –dunque- il fascismo, prigioniero della sua stessa retorica sulla , a completare, a carissimo prezzo, l’opera di conquista o riconquista della Libia” .
In questo processo, anche il regime, così come era accaduto al governo Giolitti, dovette scontrarsi con la resistenza religiosa Senussita. Contro “l’italiano occupante”, pieno di risorse ed armi, il popolo libico riuscì a superare le sue divisioni interne sviluppando progressivamente, anche sulla base della comune fede religiosa, un sentimento patriottico. Assieme alla Confraternita, un importante ruolo nella guerra ebbero gli sceicchi, non solo nel corso dei combattimenti, ma anche rispetto al morale dei combattenti, operando per mantenere sempre in agitazione i Beduini.
Sidi Umar al-Mukhtar, leader della resistenza, incarnava entrambe queste componenti. Combattente già ai tempi della prima penetrazione italiana, ultra sessantenne nel 1923, quando fu richiamato a dirigere la lotta, Sidi Umar era un uomo semplice, incurante degli onori, profondamente religioso e dotato di un’eccezionale resistenza fisica. Umar, che si firmava al-Naib al-Amm, cioè Rappresentante Generale (della Senussia), comandava tutte le adwar (bande guerrigliere) dell’altopiano.
Una particolarità di questo secondo conflitto italo-libico, fu l’elevata frequenza di combattimenti che lo scandirono per circa nove anni. Questi erano assai diversi dalle normali guerre fra eserciti, giacché i Beduini erano in grado di spostarsi a loro piacimento su un territorio perfettamente conosciuto, attraverso popolazioni amiche in grado di aiutarli in termini alimentari e informativi; soprattutto, gli attacchi della resistenza furono condotti con la tipica tattica da guerriglia, contrassegnata da brevi attacchi intensi ed incessanti e dalla fuga immediata. Come afferma Evans-Pritchard, “Gli italiani avevano di fronte un popolo, non un esercito, e un popolo non può essere sconfitto che con la sua cattura totale o con il suo sterminio” .
Agli inizi degli anni trenta, pur tra alterne vicende, la tenacia della resistenza dovette cedere; già alla fine degli anni venti tutte le basi di al-Mukhtar erano state distrutte, e i combattenti divenivano sempre più incapaci di muoversi. L’11 settembre 1931 Umar fu catturato e condotto a Soluch dove, il 16, fu impiccato di fronte a 20 000 Beduini, portati lì deliberatamente dalla prigionia per suggestionarli con l’esibizione della fine del loro capo. In effetti, può essere identificato con quel giorno il momento finale della resistenza e della vittoria definitiva italiana. Infatti, anche se sull’altopiano c’erano ancora 700 combattenti, nessuno aveva le capacità di Umar per poterli guidare. Così il 24 gennaio 1932 Badoglio dichiarò conclusa l’ultima battaglia della guerra.

6. Secondo fonti italiane, la guerra di riconquista provocò in Cirenaica 6 500 morti dal 1923 al 1931. Questo dato, tuttavia, per quanto drammatico, ci testimonia come solo in piccola parte le operazioni belliche influirono sul calo della popolazione; possiamo dunque dire che, sotto questo aspetto, una parte ben maggiore ebbero le condizioni create dalla repressione italiana (fame, epidemia e miseria) e dalla deportazione delle popolazioni.
Rispetto alla prima causa, uno sprezzante mezzo, per così dire, indiretto, di sopraffazione fu la distruzione del bestiame. Da una relazione di Graziani a Balbo del 26 aprile 1934, citata da Giorgio Rochat in un accurato studio sul tema , si manifesta in tutta la sua drammaticità questo tipo di intervento; emerge infatti che dal 1930 al 1931, il numero di ovini e caprini passò dal 270 000 a 67 000, quello di bovini da 4 700 a 1 800 e quello di cammelli da 39 000 a 16 000.
Riguardo alle deportazioni, invece, sappiamo che, generalmente, furono escluse dal provvedimento le popolazioni urbanizzate (circa 50 000 persone), quelle delle oasi interne (5-10 000) ed i nuclei politicamente affidabili (secondo una valutazione di Graziani dalle 10 000 alle 20 000 persone). Al contrario, furono deportate le popolazioni nomadi e seminomadi, vale a dire quelle dedite all’allevamento e all’agricoltura estensiva. Anche qui i dati sono diversi: stando, anche qui, ad una relazione del maggio 1931 che Graziani indirizza a De Bono, il totale dei deportati fu di 79 800 libici, ma, quasi certamente, è ben al di sotto del dato reale, visto che nella relazione non si fa riferimento ad una serie di campi di concentramento minori e tenuto presente che, stilata nel maggio 1931, la relazione non contempla i morti che ci furono durante le marce di trasferimento nei primi 8-10 mesi di prigionia. Dunque, considerando anche gli emigrati in Egitto e gli esonerati dalle deportazioni, possiamo verosimilmente affermare che la popolazione della Cirenaica prima di Graziani era di circa 200 000 uomini, con un totale di deportati pari al 50% e con circa 50 000 morti nel corso della repressione.
I campi di concentramento non erano solo luoghi in cui i libici venivano rinchiusi; al contrario, erano veri e propri serbatoi di manovalanza a basso costo, utile a far sedimentare, attraverso lavori infrastrutturali per esempio, il potere fascista. Decine di migliaia furono le persone ammassate le une sopra le altre, senza mezzi di sussistenza, costretti ad aspettare un magro salario e con pochissima assistenza sanitaria.
Lo sfruttamento salariale, in particolare, si evince da un discorso di Graziani del 1934, presente nello studio del Rochat, secondo cui, per il complesso dei lavori stradali compiuti in quattro anni, furono spesi 45 milioni di lire per 1 516 000 giornate lavorative di operai italiani (una retribuzione media di trenta lire giornaliere) e solo 57 milioni per 5 694 000 giornate di operai libici (una retribuzione media di dieci lire).
Anche per la popolazione “libera” le cose non andarono meglio. Al di là dei discorsi concilianti del governatore generale della Libia Balbo, infatti, gli autoctoni furono sempre mantenuti in posizione subalterna, e quei pochi provvedimenti presi in loro favore, furono costruiti con il solo scopo di introdurre un nuovo strumento di controllo, diverso dal tradizionale uso della forza.
L’ingresso nel Secondo conflitto mondiale dell’Italia, il 10 giugno del 1940, produsse l’arresto di ogni progetto nell’ambito della colonizzazione. La Cirenaica, alla fine del 1942, fu occupata dagli inglesi, e, da quel momento, gli abitanti originari poterono prendere di nuovo possesso delle loro terre. Diversa fu la situazione in Tripolitania, dove gli agricoltori italiani restarono anche dopo la proclamazione d’indipendenza della Libia del 25 dicembre 1951, e furono definitivamente cacciati nel 1969 quando, attraverso una rivoluzione di ispirazione nasseriana, Muhammar Gheddafi si insediò al potere. Questa, però, è un’altra storia.

Note

Farid Adly, Direttore di Anbamed –notizie dal Mediterraneo-, Il passato coloniale che non passa, su Il Manifesto del 21 febbraio 2006, p. 2.
A. GIARDINA, G. SABBATUCCI, V. VIDOTTO, Storia 1900-1993, Roma-Bari 1994, p.1247.
N. VALERI, Tripoli bel suol d’amore, in , 26 settembre 1961; inserito in A. SAITTA, Antologia di critica storica, Bari 1972, p. 511-16.
A. GIARDINA, G. SABBATUCCI, V. VIDOTTO, Storia 1900-1993 cit., p.1247-48.
V. PELLEGRINI, A. BERTINELLI, Per la storia dell’amministrazione coloniale italiana, Milano 1994, p. 80-1. Anche G. CALCHI NOVATI, P. VALSECCHI, Africa: la storia ritrovata, Roma-Urbino 2005, p. 243.
G. CALCHI NOVATI, P. VALSECCHI, Africa: la storia ritrovata cit., p. 243.
E. E. EVANS-PRITCHARD, Colonialismo e resistenza religiosa nell’Africa settentrionale, Catania 1979, p. 121-22.
C. MOFFA, I deportati libici della guerra del 1911-1912. Un aspetto poco noto della politica coloniale di Giolitti; inserito in C. MOFFA, Saggi di storia africana, Milano 1996, p. 189-226. Anche Cfr., A. DEL BOCA, Gli italiani in Libia, Bari 1986.
In realtà, l’esito contraddittorio dell’Inchiesta fa pensare ad un suo pre-orientamento: Lutrario, infatti, decise di non procedere giudiziariamente contro Barbangelo ma, allo stesso tempo, suggerì di rimuoverlo dalla colonia. Ad ogni modo, come suggerisce lo stesso Moffa, non essendo l’obiettivo dell’Inchiesta la verifica del rispetto dei detenuti, ma quello del rispetto delle leggi da parte del personale della Colonia, sembra improbabile l’ipotesi di falsità delle informazioni ivi contenute, intendendosi piuttosto il pre-orientamento come un tentativo di difendere l’immagine dell’Istituzione e, con essa, del governo e della sua impresa coloniale.
In realtà il sottosuolo libico,come si sa, è ricco di petrolio, che, tuttavia, fu scoperto solo negli anni trenta.
G. CALCHI NOVATI, P. VALSECCHI., Africa: la storia ritrovata cit., p.247.
E. E. EVANS-PRITCHARD, Colonialismo e resistenza religiosa nell’Africa settentrionale cit., p. 173.
G. ROCHAT, La repressione della resistenza in Cirenaica (1927-1931); inserito in E. SANTARELLI, G. ROCHAT, R. RAINERO, L. GOGLIA, Omar al-Mukhtar e la riconquista fascista della Libia, Milano-Vicenza 1981, pp. 53-189.