La conferenza di Roma si è conclusa con un insuccesso. L’insuccesso è un mancato accordo per la cessazione del fuoco. Era il minimo e non è stato raggiunto.
La conferenza non poteva avere certo il compito di risolvere una crisi così grave e così profonda come è quella cui stiamo assistendo. Ma va subito detto che la premessa esplicita su cui essa si è poggiata – e cioè che una soluzione della crisi che sia basata sul postulato che «Hezbollah è il problema» è una premessa sbagliata, illusoria, e quindi destinata ad aggravare il problema anziché risolverlo. Premessa sbagliata perché Hezbollah non è il problema. Come minimo si può dire che non è «il solo problema». Necessario dire che il problema è essenzialmente Israele.
La prima considerazione realistica sarebbe stata e sarà di non separare la crisi «libanese» da quella «palestinese», essendo l’offensiva israeliana contro il Libano la seconda tappa di un’operazione a più vasto raggio, il cui primo risultato è già stato quello di aver fatto dimenticare a tutto il mainstream informativo mondiale, Fox News e Cnn in testa, e dietro tutti gli altri, lo scempio di ogni prospettiva di pacificazione a Gaza e in Cisgiordania.
La comunità internazionale ha assistito in silenzio a quello scempio, dopo averlo favorito accettando di fatto il blocco israeliano di Hamas, vincitore inequivocabile delle elezioni palestinesi, cioè legittimo rappresentante del popolo di Palestina. Ogni spazio per la mediazione diplomatica è stato così bruciato. Hamas non ha neppure avuto il tempo di manifestare sostanziali correzioni della sua politica, che aveva già perfino annunciato. In tal modo l’Europa che pure quelle elezioni ha voluto ha fatto capire a Israele che vi era lo spazio per un’offensiva. Israele l’ha colta al balzo.
Il secondo obiettivo Israele non l’ha ancora raggiunto del tutto, ma lo sta raggiungendo, con l’aiuto degli Stati Uniti. Intanto vediamo quali sono gli obiettivi israeliani. La miglior loro definizione l’ha fornita Michael Oren, storico israeliano e fellow dello Shalem Center di Gerusalemme. «Noi stiamo giocando, in un certo senso – ha detto a International Herald Tribune – un vecchio gioco dell’Olp. Quello di far precipitare la instabilità regionale e poi cercare di promuovere l’intervento internazionale.(…) Israele ora capisce che non può fare da sola. E Israele sa di avere un amico nell’America e di avere una più grande comprensione da parte dell’Europa». La descrizione è perfetta e fa giustizia del risibile pretesto del rapimento di due soldati israeliani. Quando Israele ha capito che poteva colpire, ha colpito. Per questo si era preparato da tempo.
Prima dell’indignazione morale conta, o dovrebbe contare, il realismo. Questo «Nuovo Medio Oriente» di cui parlano George Bush e la sua inviata Condoleeza Rice dovrebbe essere basato sulla liquidazione delle resistenze della nazione araba e sull’instaurazione di nuovi rapporti di forza in tutta la regione, a vantaggio degli Usa e, in subordine, di Israele.
E’ un obiettivo realistico? Molte cose dicono che non lo è. Non ha funzionato mettere gli sciiti iracheni contro i sunniti iracheni. Non ha funzionato l’ipotesi che si sarebbero potuti colpire i sunniti palestinesi, contando sulla passività degli sciiti libanesi. Non funziona usare i regimi sunniti reazionari di Egitto e di Arabia Saudita contro il regime sciita di Teheran. E’ uno schema sbagliato, sempre che s’immagini che esso serva a riportare la pace in Medio Oriente. Infatti non porterà la pace, ma altro disordine, altra guerra. Ecco: se lo si esamina da questo altro punto di vista, questo schema potrebbe rivelarsi molto utile, anche se «sbagliato».
Il potente «uno-due» di Israele, a sud e a nord, ha tutta l’aria di voler dare l’avvio non a un «Nuovo Medio Oriente», ma a uno stato di guerra permanente, che prelude all’attacco contro l’Iran. In questo contesto occorre ricordare quello che Dick Cheney disse un anno fa: «Una delle preoccupazioni che esistono è che Israele potrebbe farlo senza che nessuno glielo chieda”. In realtà la sola idea che Israele faccia una mossa del genere senza avere il via libera di Washington appare una sciocchezza madornale. Se avverrà, quando avverrà, sarà perché Washington ha deciso e, in ogni caso, con la decisiva partecipazione statunitense. Ma fare questo in condizioni di pacificazione, negoziato, non sarà possibile. Dunque a Israele è stato affidato il compito di creare le condizioni di completa destabilizzazione dell’area.
E non basta nemmeno questo. L’altro, potente obiettivo, non solo di Israele, ma soprattutto di Washington, è «tirare dentro» l’Europa, coinvolgerla come partner militare. Per questo la Nato andrebbe a meraviglia come «forza d’interposizione combattente». Non a proteggere un confine, che Israele protegge fin troppo bene, come stiamo vedendo, ma a combattere in territorio libanese contro la maggioranza dei libanesi. Come ha dichiarato un portavoce israeliano, «i caschi blu con il binocolo non c’interessano». Per farlo capire meglio li hanno bombardati per una giornata intera, fino a che non ne hanno ammazzati quattro. Hanno bombardato i binocoli.
Con queste premesse, se l’Europa non dirà chiaramente la sua indisponibilità, si andrà in guerra, trascinati per i capelli. Bisogna saperlo. Fingere di non saperlo è irresponsabilità.