Chi c’era e chi non c’era. Insieme preparano lo sciopero generale dei sindacati di base, il 9 novembre. Perché il problema, una volta tanto, non è chi avesse ragione prima del 20 ottobre, ma come si va avanti ora. Dietro l’angolo, infatti, c’è uno scenario comunque terribile per la «sinistra sociale», e il solo fatto che una massa così sterminata di persone abbia deciso di scendere in piazza per dire tutti i suoi «no», come i «vorrei ma non posso», è un incentivo a lavorare meglio.
Il Sindacato dei lavoratori (Sdl) era in piazza sabato. E ora rilancia. Scortica la «finanziaria leggera» per evidenziare l’assenza di stanziamenti per il rinnovo dei contratti pubblici, l’aumento dei contributi previdenziali (+0,3%), l’obiettivo ormai palese di imporre la triennalizzazione della durata dei contratti. Boccia senza mezzi termini il «protocollo» e indica, tra gli altri, l’obiettivo del ripristino della «scala mobile».
La Cub-RdB non c’era, ma Pierpaolo Leonardi riconosce correttamente la «grande riuscita» della mar nifestazione, augurandosi che «paradossalmente questo aiuti lo sciopero del 9». C’è attenzione alla mobilitazione sociale «che dice no al protocollo», vedendone comunque le «complicazioni» sul piano politico («soggetto unitario o orgoglio di partito?»). Perno dell’evoluzione del quadro politico è comunque la nascita del Partito democratico, «pericoloso sul piano del pluralismo sindacale», perché «ha bisogno del sindacato unico». Non sfugge il fatto che «dopo questo governo si apre un vuoto pericoloso; non si capisce quale possa essere il punto di sintesi», anche dando per scontato che «comunque cadrà da destra».
La fotografia politica Leonardi la vede in quel cartello in cui una ragazza aveva scritto «sono di sinistra, voglio che torni Berlusconi così la sinistra ricomincia a pensare». Sintesi «terribile», ma che dà la misura della delusione che attraversa il «popolo della sinistra» per un governo che tutti, ognuno a suo modo, ha contribuito a far nascere. L’elemento di speranza, diciamo così, non viene qui ovviamente visto nella classe politica di sinistra, quanto sul piano sociale e sindacale, dove «c’è una fibrillazione e una più forte possibilità dell’ipotesi indipendente».
Anche i Cobas avevano preferito continuare a preparare la scadenza del 9, anziché contribuire alla riuscita del 20 ottobre. Piero Bernocchi rivendica questa scelta, volendo farne «un fatto che punta a mettere insieme precari e non in una contestazione sociale complessiva della politica del governo». Del resto, «ci rendiamo conto che c’è stata una manovra di divisione tra settori sociali, per metterli gli uni contro gli altri» (pensionati versus giovani, per dirla con Giavazzi o Tito Boeri).
Ma la strada davanti «a tutti questi movimenti» è comunque comune. «Non crediamo che possa funzionare un’ipotesi di unità politica», e grande è la diffidenza per la «cosa rossa» (ma «non abbiamo nessuna intenzione di fare la ‘cosa rossissima»). Ma c’è una grande opportunità per «l’unità sociale», a partire dai tre grandi terreni «su cui i movimenti sono già di fatto uniti», ovvero sul mondo del lavoro («non c’è divergenza tra precari e stabili, tra occupati e disoccupati»), sulla questione della guerra e delle basi (e delle spese) militari, sulle tematiche ambientali e dei «beni comuni».
In fondo è su questo, in definitiva, che si misura la maturità di una popolazione in movimento: «l’unità sui contenuti, non sugli schieramenti».