Discutere delle prospettive del movimento antiglobalizzazione è per il nostro partito essenziale. Per questo considero importante il dibattito avviatosi sulle pagine di Liberazione che, a mio avviso, ha avuto il merito, pur nella differenziazione delle posizioni, di individuare nodi decisivi per lo sviluppo del movimento. Prima di esporre alcune brevi valutazioni personali, desidero, tuttavia, esprimere il mio profondo dissenso rispetto ai toni e alle argomentazioni usate dal compagno Mantovani nel suo articolo. Giudico francamente irresponsabile che si prenda a pretesto questo dibattito per incitare ad una resa dei conti nel partito in vista del congresso. Di quale verità è depositario Mantovani per accusare altri compagni di difformità dalla linea del partito? Esprimere le proprie valutazioni anche critiche su un movimento significa disattendere la scelta del partito di farvi parte? O, forse, si vuol negare cittadinanza nel partito a quel dibattito sul movimento che ormai si è avviato in tutte le sue articolazioni? Di simili atteggiamenti censori non abbiamo bisogno, né tantomeno di crociate che, condotte in nome della difesa della linea del partito, tendono di fatto ad impedire un confronto democratico. Ma lascio a Mantovani la piena responsabilità delle sue affermazioni e torno su alcune questioni sollevate nel dibattito.
La prima riguarda la prospettiva del movimento. Premetto che, di per sé, l’esistenza di un movimento di queste dimensioni e articolazioni è un fatto straordinario e che ogni ragionamento sulle sue caratteristiche non può prescindere dal fatto che ci troviamo di fronte ad un soggetto collettivo composito e in evoluzione. Per questa ragione la “parzialità” ne è un connotato per molti versi imprescindibile. E’ del tutto evidente comunque che, proprio per l’importanza assunta dal movimento, il problema della sua “adeguatezza” sia decisivo. Nei prossimi mesi, infatti, lo stesso movimento dovrà confrontarsi con la ripresa dello scontro sociale (intorno alle tematiche contrattuali e alle scelte di politica economica), con alcuni appuntamenti internazionali che lo costringeranno ad allargare il campo del confronto in tema di globalizzazione (penso al vertice Nato di Napoli) e, infine, con le implicazioni di alcune scelte organizzative come quelle di dar vita a social forum locali, con tutto ciò che questo comporta in termini di individuazione dei terreni di intervento. A tale riguardo, a me pare evidente che su alcune tematiche la base politico-programmatica del movimento vada rafforzata. Così, se è vero che la convergenza prodottasi con alcuni settori sindacali costituisce un fatto importante, tuttavia è difficile sottrarsi alla sensazione che le questioni del modo di produzione e del lavoro siano ancora scarsamente incidenti nella riflessione del movimento, come peraltro alcuni esponenti sindacali hanno già sottolineato. E così, se è vero che il movimento è connotato da una propensione pacifista, non di meno non si è colta fino ad ora una forte connessione tra le tematiche della globalizzazione e della guerra. Ragionare su questi nodi non è indice di “esternalità” al movimento, ma un’esigenza elementare per chi si proponga di consolidare e far durare questa esperienza. Il punto è che di fronte all’obiettiva complessità delle sfide a cui questo movimento sarà chiamato, alcuni atteggiamenti “celebrativi” che si colgono nel nostro dibattito interno giovano poco e, peraltro, stonano con le riflessioni anche autocritiche che si sono prodotte in altri settori del movimento.
Una seconda questione sulla quale vorrei soffermarmi riguarda le forme di lotta. Il tema è delicato, non fosse altro per il fatto che siamo nel bel mezzo di un tentativo di criminalizzazione del movimento che punta a delegittimarlo e a dividerlo. Ciò non di meno, credo sia necessario affrontare il problema con chiarezza. A me pare che la natura composita e di massa di questo movimento richieda scelte appropriate per quanto riguarda le forme di lotta. Mi pare scontato che la scelta di una pratica pacifica sia indispensabile per tenere unito il movimento, per dargli maggiore incidenza e per contrastare il tentativo della destra di stabilire una connessione fra movimento, violenza e, ora, terrorismo. Ma una volta acquisito questo orizzonte non credo, in verità, che ogni forma di lotta si equivalga. Per esempio, esiste una dimensione simbolica che non può essere trascurata. A tale proposito, io sono convinto che certe uscite mass-mediatiche di alcuni esponenti del movimento non siano state utili; né credo, come si è sostenuto, che il problema possa essere ridotto a “incomprensione dei linguaggi”. Chi è parte di un movimento, e a maggior ragione se vi ricopre un ruolo dirigente, ha l’onere di farsi capire senza alimentare ambiguità. Né credo che in questo movimento e in questa fase giovi la ricerca della “spettacolarità dell’azione”. Né, tantomeno, credo che tale ricerca renda più efficace l’azione politica. Ho anzi la convinzione che le azioni esemplari, anziché rappresentare come qualcuno vorrebbe occasioni di visibilità, finiscano con il costituire delle pratiche vissute come “esterne” dalla parte di gran lunga maggioritaria del movimento, molto più interessata ad autentiche esperienze di massa.
La terza e ultima questione che vorrei affrontare riguarda l’autotutela del movimento. Il problema, mi pare, sia diventato rilevante alla luce degli avvenimenti di Genova. Di fronte a masse consistenti di persone, eterogenee e spesso inermi, il problema della loro sicurezza si pone. Personalmente, ritengo che la prima condizione per garantire tale sicurezza sia l’esistenza di una comune “disciplina di movimento”. Non vorrei essere frainteso: la disciplina non è la militarizzazione. E’ la condivisione e la pratica di alcune regole. Una di queste è l’esclusione di quanti costituiscono una effettiva minaccia per il movimento. Mi chiedo: di fronte alla possibilità di infiltrazione nei cortei di frange violente, il loro isolamento anche fisico si pone o no? Io penso di sì. Ma più in generale esiste la necessità che nelle mobilitazioni vi sia un codice di comportamento comune e per ottenere questo è indispensabile che il movimento sia adeguatamente organizzato. In questo contesto, non mi scandalizzo se si affronta anche il tema dei servizi d’ordine. Certo sarebbe illusorio pensare che i servizi d’ordine risolvano di per sé il problema dell’aggressione ingiustificata da parte delle forze dell’ordine. Il problema, in questo caso, è ovviamente quello di mettere in campo uno schieramento più ampio del solo movimento. Ben vengano giornalisti, avvocati o parlamentari se la loro presenza può fungere da dissuasione di comportamenti illeciti. Il punto è che la strutturazione organizzativa del movimento (con tutte le implicazioni che ciò comporta specialmente per quanto riguarda la definizione delle regole di comportamento comune) e le altre forme di autotutela non possono essere messe in contrapposizione. E in ogni caso, quello che mi pare evidente, è che adagiarsi sull’esaltazione del “informalità” del movimento non sia la scelta migliore.