Proposta Rdb: pubblici tutti stabili

Sciamano sulla scalinata, dalla piazza del Campidoglio fino alla sala della Protomoteca e ascoltano dagli altoparlanti gli interventi di chi ce l’ha fatta a entrare. Altri sono ancora sui pulmann, in autostrada. Oltre un migliaio di delegati dei precari della pubblica amministrazione, «da Trapani a Torino». Li ha portati qui la Cub-RdB, che ha trovato anche un primo nutrito gruppo di parlamentari della sinistra disposti a presentare una proposta di legge «per la stabilizzazione dei lavoratori con contratto atipico» nel pubblico impiego. Arrivano Cesare Salvi, Loredana De Petris, Francesco Caruso, Dino Tibaldi, Gianni Pagliarini, Mauro Bulgarelli, Iacopo Venier. Un po’ stupiti dalla marea di gente presente, tra facce piovute direttamente dagli anni ’70, ragazzi «no global» e signore che domani te le ritrovi dall’altra parte dello sportello in circoscrizionne. E che alla fine dichiarano lo sciopero nazionale per il 6 di ottobre, con la speranza di estenderlo anche ai dipendenti «stabili».
E’ l’effetto di un lavoro di organizzione sindacale «di base» partito quasi in silenzio più di 20 anni fa, ma che ora può contare su oltre 700 mila iscritti e una presenza riconosciuta perfino nel Cnel. Forte soprattutto nel pubblico impiego, e qui le cifre spiegano molto. La vera dimensione del lavoro precario «para-statale» è quasi sconosciuta. I dati più credibili parlano di 5-600.000 lavoratori. Censiti ufficialmente sono però soltanto 350.000, ma lo stesso ministero della funzione pubblica dice che il fenomeno è molto più ampio perché gli enti locali e la sanità non comunicano i dati su quanti interinali, co.co.co. o «cooperative» utilizzano. Insomma oltre mezzo milione di persone su poco più di 3 milioni di dipendenti, forze armate comprese.
Un fenomeno iniziato in sordina, con la brillante idea di trovare qualcosa da fare per i lavoratori mandati in cassa integrazione e non assumibili da nessuno per via dell’età. Fu il boom dei «lavori socialmente utili», presto estesi a chiunque avesse due anni di anzianità nelle liste degli uffici di collocamento. I quali venivano subito dopo di fatto chiusi a vantaggio delle agenzie di lavoro interinale. Contemporaneamente, per «risanare i conti», si bloccava il turnover e si impedivano le assunzioni. Una nuova legislazione, il «pacchetto Treu», rendeva legali forme contrattuali prima inaudite, tutte precarie. Bingo.
I lavoratori che andavano in pensione venivano sostituiti con giovani ricattabili, a un costo che sembrava più basso. Tutti gli enti locali, l’amministrazione centrale, le aziende sanitarie scoprivano la «miniera» dell’«esercito salariale di riserva». Magari aggirando anche precise norme di legge. Un esempio? Gli infermieri possono essere assunti solo se di «nazionalità italiana». Una norma vecchia e razzista, indubbiamente. Ma c’è. Come si sostituisce un infermiere pensionato, allora? Importandolo da un paese lontano, facendolo assumere da una «cooperativa», ospitandolo in apposite stanze di appartamenti per cui pagheranno un affito detratto in busta paga. Alla fine costano anche di più, perché l’intermediazione di manodopera ha un suo prezzo che prima non era compreso nel servizio.
Tra questi delegati ne puoi sentire di ogni genere. Un ragazzo della Locride racconta che prende 498 euro al mese, senza contributi, né diritti a ferie e malattie; e ti spiega come anche il superprefetto De Sena, in Calabria, abbia capito che «l’illegalità si combatte con il lavoro». Un’altra che per lavorare gli hanno chiesto «qualche massaggio a casa mia». La precarietà mette contemporaneamente il singolo alla mercé di chi gli gestisce il tempo di lavoro (l’ufficio pubblico) e di chi gli passa ufficialmente un salario (l’intermediatore). Ogni diritto viene qui presentato come un «favore», ogni pretesa di farlo rispettare diventa «insubordinazione». Il sindacato ufficiale ne è uscito malissimo. Norme varate dal centrosinistra (Treu) e «quadri» presto riciclatisi in dirigenti di finte «cooperative» ne hanno compromesso largamente la credibilità. L’esplosione di sindacati – e su un altro versante di quelli decisamente corporativi – di base trova qui la sua ragion d’essere. La precarietà ha un prezzo salato. Per tutti.