Prometeo e il caos creativo del ’77. Va in scena l’utopia della vita

«Senza l’utopia: il nulla» sembra essere l’assunto attorno al quale, per cerchi concentrici, si costruisce Il cielo sulla terra, il nuovo spettacolo andato in scena a fine luglio nel leggiadro Nicola Vaccaj di Tolentino, in prima italiana, con la preziosa collaborazione dello Staatsoper di Stuttgart che ne ha realizzato la prima assoluta lo scorso 1 giugno. L’opera interdisciplinare, ma splendidamente unitaria, si distende fra musica, teatro, arti visive e letteratura. Non a caso i suoi tre ideatori sono un musicista, un artista visivo e un filosofo. Parliamo di Stefano Scodanibbio, l’autore principale, compositore di razza e contrabbassista di fama internazionale, che ha diretto l’opera e realizzato le musiche. Di Gianni Dessì, esponente di spicco della Nuova Scuola Romana che ha curato la scenografia, i costumi e le luci. E di Giorgio Agamben, filosofo attualissimo.
L’elogio dell’utopia è l’intenzione perseguita da chi ha pensato e realizzato questa opera vibrante. Utopia, però, intesa non come vacua esaltazione di principi astratti e di prospettive tanto edificanti quanto incerte, ma come necessità assoluta. Questa cosa richiama alla mente il Prometeo incatenato di Eschilo, che narra di quando gli uomini erano annichiliti dalla consapevolezza, velenosamente infusa da Zeus, dell’ora della propria morte. Prometeo regalerà all’uomo, non solo il fuoco (la techne) ma anche l’oblio dell’ora della morte. Da allora in poi la partita (la vita) inizierà ad essere giocabile. L’angoscia della morte sopportabile. La prospettiva di una reazione ad essa (il vero motore di tutto) possibile. Nasceranno l’arte, la tecnica, la medicina, i miti e la religione. E nascerà soprattutto l’utopia: il grande sogno di liberazione umana universale che nel corso dei secoli assumerà forme diverse e storicamente necessarie.

Dichiara Scodanibbio: «Così questo lavoro può essere letto come una riflessione sul tema della liberazione dell’uomo, un excursus tra alcune avanguardie del secolo, una evocazione di alcuni momenti-perno dell’utopia novecentesca dalla Beat Generation al ’68, dal Flower Power ai no global, una trasposizione autobiografica degli anni ’70 in Italia che può essere concentrata in una giornata esemplare». E così che i suoni, le immagini, i “sipari pittorici” di tulle di Dessì che scandiscono la trama narrativa, solcati da linee curvilinee luminose ed evocative, il corpo mimetico di due ballerini di straordinaria bravura, un gruppo di bambini che costruiscono coi libri case e quartieri, la voce di Toni Negri fuori campo che declina i “presupposti poetici”della sua rivoluzione, le citazioni scritte in soluzioni spiraloidi o parlate (Debord, Rimbaud, Marx, Kerouac, Benjamin) costruiscono le mura di un’opera dedicata al movimento del ‘77, agli anni dell’antagonismo vissuto senza inibizioni (quelli, per intendersi, di Radio Alice narrati nel film Lavorare con lentezza) in una Bologna, laboratorio a cielo aperto di democrazia diretta, di caos creativo e artistico.

Le stazioni si succedono con ritmo antiscolastico. La prima, “Je m’en allais”, appare introdotta da un tulle dipinto di giallo sul quale si muovono cerchi di luci. Ai primi suoni dell’orchestra invisibile, i giochi di luce cedono il passo ad immagini di repertorio: hippies, manifestazioni di piazza, scene del ‘68. La seconda stazione, “Ludens”, dopo un tratto di buio e un assolo di percussioni, introduce ad un bagno di luce entro il quale irrompono in scena quindici bambini. I giochi dei bimbi con la loro vitale naturalezza troveranno espressione compiuta nella costruzione di una vera e propria città non fatta con il lego, però, ma con muri di libri. La terza è la scena de “La rivolta”, dove il testo musicale in elettronica viene percorso da spezzoni di registrazioni delle radio libere degli anni ’70 e da cronache di manifestazioni. I tulle che attraversano la scena cambiano colore, su uno di essi compare la prima citazione: «Dopo tutto era la poesia moderna che ci aveva condotti lì (…)». Da un palco in platea Toni Negri legge una sua dichiarazione mistico-rivoluzionaria. La scena quarta, “Amores”, mostra i corpi di due danzatori intrecciati. I bambini escono di scena. Mentre le sonorità si fanno melodiche e struggenti, si consuma il rito immutabile dell’amore. In “Oh psichedelia”, la quinta stazione, la musica ritorna alla spazializzazione elettronica. Al buio, sul primo tulle, compaiono le citazioni. I danzatori continuano la loro danza. Giochi spiraloidi di luce fra i tulle sembrano alleggerire i ballerini del loro peso. L’ultima scena, “L’arte nella vita”, è un’apoteosi di luci, di colori, di musica, ancora di animazioni e nuove citazioni: «Dicono che un tempo anche gli adulti sapessero giocare. Avevano inventato un gioco, che si chiamava Sessantotto e l’hanno giocato con tanto impegno che per poco non cambiavano la loro vita».

La regola di un disordine creativo e giocoso (sapiente) percorre per intero l’opera e emoziona. Tutto si costruisce e tutto si distrugge. C’è da convincersi (per chi avesse dei dubbi) che sono balle quelle che ancora ci raccontano sulla “fine della storia”. Ce le raccontano per spegnere i fuochi ed evitare che scoppino gli incendi. Ma l’utopia è come l’arte: un liquido infiammabile che non finisce mai. Da quando Prometeo ha regalato agli uomini il coraggio.