PROMEMORIA PER LA SINISTRA

Ogni volta che vengono riproposte si resta colpiti dalla povertà teorica e pratica delle riforme che la Confindustria e il governo vorrebbero attuare allo scopo di accrescere la ‘competitività e la capacità di sviluppo’ della economia italiana 1. Sono ispirate da criteri ben noti: meno tasse e contributi a carico delle imprese; maggior flessibilità del mercato del lavoro; riduzione della spesa pubblica per pensioni e sanità. Il fatto che tali riforme siano pressoché identiche, nella sostanza, a quelle che la UE raccomanda da tempo a tutti i paesi membri non ne riduce la pochezza; dimostra semmai che l’ideologia neoliberale o liberista che le sottende ha radici profonde nelle istituzioni europee, quanto ampie ramificazioni nei diversi paesi. Ove si faccia mente alle condizioni critiche in cui versa il nostro apparato produttivo, derivanti dalla marcata contrazione quanto dalla sparizione in pochi lustri di interi settori industriali, appare sin troppo agevole inferire che al fine di elaborare le linee di una politica capace di migliorare dette condizioni i criteri ispiratori dovrebbero essere assai differenti. Peraltro, in un paese che da quasi quarant’anni non ha prodotto un quadro organico di politica industriale, chiedere quali mai potrebbero essere tali criteri è di per sé una domanda impegnativa.
Per muovere qualche passo in tale direzione può essere utile il concetto di ‘Standort’, termine traducibile come ‘posizione di un paese comparata all’economia internazionale’. Il concetto di ‘posizione comparata’, che non si esaurisce nelle ricorrenti quanto rudimentali classifiche della competitività a base di benchmarkings (ricerca del prodotto leader), ha dato origine a numerose elaborazioni teoriche, programmi politici e ricerche empiriche soprattutto in Germania – ovviamente declinato come Standort Deutschland. Dalla relativa letteratura possono venire, a giudizio di chi scrive, suggerimenti interessanti qualora si voglia tentar di riavviare una discussione sulla politica industriale in Italia. Va da sé che non si tratta di prendere a modello l’industria o la politica economica tedesche, quanto di cercar di capire in qual modo il concetto di ‘Standort Italia’ potrebbe contribuire a delimitare un programma quadro di politica industriale, dopo che per decenni esso sembra esser stato rimosso non soltanto dalla prassi, ma perfino dalla coscienza delle forze economiche e delle forze politiche del paese, incluse quelle di sinistra.
Tra coordinate dello Standort (d’ora innanzi S.) e contenuti di una politica industriale intercorre una relazione ricorsiva assai stretta. Una politica industriale dovrebbe puntare a migliorare lo S. di un paese; ma se lo S. di questo è tra mediocre e pessimo – è il caso dell’Italia – le coordinate del medesimo pongono severi limiti alla pronta elaborazione di una politica efficace. Trasformare tale spirale perversa in una spirale virtuosa – la politica industriale che migliora lo S. il quale permette di impostare una politica più incisiva – dovrebbe essere l’obiettivo di un programma politico prima ancora che di una politica economica.
La nozione di S. porta a individuare vari aspetti topici di una politica industriale. Tra questi si collocano:
– il modo di concepire e affrontare la sfida della globalizzazione; – investimenti pregressi e presenti in formazione e ricerca; – capacità tecnologiche e settori produttivi da sviluppare; – organizzazione del governo e politica industriale; – politica industriale, mercato del lavoro e politiche sociali Proverò ad esaminare brevemente ciascuno di questi aspetti in riferimento al nostro paese.
Globalizzazione. La nozione di S. propone di scegliere tra differenti schemi interpretativi sia della globalizzazione che dei suoi effetti in diversi campi. Stando alla versione neoliberale essa consiste nello sviluppo d’un sistema economico operante in tempo reale in ogni regione del pianeta. A tale schema interpretativo si può opporne un altro: la globalizzazione intesa come un progetto di formazione sociale vasta come il mondo, nel quale gli elementi economici sono inseparabili da quelli politici, culturali ed ecologici. Quanto agli effetti, lo schema neoliberale li desume dall’idea portante di ‘vincolo’: la globalizzazione potrà dispiegare i suoi effetti positivi solamente se saranno rimossi tutti i vincoli ovunque esistenti al libero impiego della forza lavoro, alla circolazione dei capitali, al commercio internazionale. Sono i vincoli del mercato del lavoro che producono un tasso elevato di disoccupazione, così come un costo del lavoro elevato perché gravato da troppi contributi obbligatori rende le imprese poco competitive sul mercato internazionale. Da questa idea portante derivano i pressanti inviti alla deregolazione, che significa in concreto ridurre il costo del lavoro, le prestazioni dello Stato sociale, il potere dei sindacati.
Uno schema alternativo potrebbe partire dalla constatazione che non esiste alcuna evidenza empirica capace di corroborare l’ipotesi che un costo del lavoro elevato riduca la competitività, oppure quella che la regolazione del mercato del lavoro generi disoccupazione. Al riguardo il caso Germania presenta per il caso italiano particolare interesse. Anche in quel paese la maggioranza degli studiosi, dei politici e dei media, si legge in un recente rapporto sullo S. Deutschland, condivide l’opinione che mercati del lavoro ingessati e sistemi di sicurezza sociale ostili alla competitività siano responsabili della situazione difficile che sta attraversando l’economia tedesca. Un’accurata analisi dei relativi dati porta però alla conclusione che gli argomenti dei ‘de-regolatori radicali’ non poggiano su fondamenta solide né dal punto di vista teorico né da quello empirico 2. Si può aggiungere che pur facendo registrare un costo del lavoro più elevato di quello italiano di circa il 40%, l’economia tedesca è una formidabile macchina esportatrice di prodotti aventi contenuti tecnologici medio-alti, capace di generare un sopravvanzo degli scambi commerciali superiore a quello di ogni altro paese industriale.
Formazione e ricerca. È un ambito dove lo S. Italia risulta particolarmente carente. L’Italia produce laureati in materie scientifiche e ingegneristiche, nella fascia d’età compresa tra i 20 e i 29 anni, in misura pari alla metà della media UE (il 5,6% contro il 10,3). Il tasso di popolazione provvisto d’un titolo di studio di terzo livello, nella fascia di età 25-64 anni, è il più basso della UE, appena il 10,3% contro il 21,2 in media; il 23% e oltre di Francia e Germania; il 28,5 del Regno Unito. Per quanto riguarda specificamente le forze di lavoro, in Germania la quota di coloro che posseggono un diploma di maturità, o di formazione professionale, o entrambi, tocca l’80%. Al contrario in Italia, nel 2001 (ultimo dato disponibile), tra i 21,5 milioni di occupati rilevati dall’ISTAT ben 10,2 milioni, ossia oltre il 47%, avevano un titolo di studio che non andava al di là della licenza di scuola media inferiore. Nessun altro paese UE presenta un tasso di scolarità delle forze di lavoro occupate altrettanto basso. Tasso che non deriva ovviamente da una scarsa propensione agli studi degli italiani, quanto dalla composizione della domanda che le imprese italiane hanno rivolto per decenni al mercato del lavoro in base a una definita politica tecnologico-organizzativa: sostituire ovunque sia possibile il lavoro qualificato con le macchine, e impiegare per il resto forza lavoro poco qualificata.
La quota di PIL destinata a spese per ricerca e sviluppo da parte della mano pubblica si aggira sullo 0,5%, contro lo 0,7 della media europea; in proporzione, la quota fornita dalle imprese è ancora minore, poco più dello 0,5 contro l’1,3% della media UE, al disopra della quale si collocano Francia, Belgio, Germania, mentre ancora più lontane sono Finlandia e Svezia, con oltre il 2,7%: il che vuol dire oltre cinque volte la quota di PIL spesa in Ricerca & Sviluppo (R&S) dalle imprese italiane. La percentuale delle piccole e medie imprese coinvolte in progetti di cooperazione per promuovere l’innovazione è di nuovo il più basso della UE (meno del 5%), mentre Francia, Olanda, Germania e Regno Unito presentano percentuali triple o più che triple, mentre Finlandia, Irlanda, Svezia e Danimarca superano l’Italia tra le quattro e le nove volte.
Capacità tecnologiche e settori produttivi da sviluppare. La nozione di S. porta a questo proposito a formulare due considerazioni e un corollario. Le considerazioni sono: 1. la grande importanza come fattore di traino dell’innovazione tecnologica di settori industriali sovente considerati maturi e quindi tecnologicamente infertili; 2. il peso economico che hanno assunto in pochissimi anni due tecnologie avanzatissime: le optotecnologie (o tecnologie ottiche, o tecnologie della luce) e le nanotecnologie. Il corollario: l’Italia appare in cattiva posizione sul primo punto, e ha ormai accumulato un ritardo – industriale più che scientifico – probabilmente incolmabile nello sviluppo delle tecnologie anzidette.
Un settore industriale che è stato definito di volta in volta maturo, tradizionale, destinato a essere praticato entro pochi anni soltanto nei paesi in via di sviluppo, ma che per contro mostra d’avere proprio nei paesi avanzati una eccezionale capacità quantitativa e qualitativa di traino tecnologico è l’automobile. Esso continua a sollecitare innovazioni fondamentali in altri settori che vanno dai nuovi materiali metallici e non metallici all’elettronica, dalla chimica alle optotecnologie. Traendone a sua volta cospicui vantaggi in tema di qualità del prodotto, di efficienza del ciclo produttivo, di capacità di creare occupazione e pagare alti salari, e di fare buoni profitti. Grazie allo stabilirsi di tale circolo virtuoso, le case tedesche come Volkswagen e Mercedes (la parte locale della DaimlerChrysler), BMW e Porsche stanno attraversando un periodo di solida prosperità. Pagano alti salari, al di sopra dei 2500 euro al mese; assumono personale a ritmi costanti sul lungo periodo, tanto che l’occupazione del settore (ivi compresi i fornitori) ha toccato nel 2002 quota 764.000, con un incremento di 100.000 unità rispetto al 1995; hanno costruito o stanno costruendo, oltre a quelli localizzati all’estero, nuovi stabilimenti e centri di ricerca in varie regioni del paese. Il loro fatturato complessivo ha superato nel 2002, quando hanno prodotto all’interno 5,5 milioni di veicoli (e 12,7 milioni nel mondo), i 202 miliardi di euro. Tra i fattori della rinnovata vitalità dell’auto tedesca si collocano gli investimenti in nuovi impianti per oltre 46 miliardi di euro effettuati tra il 1996 e il 2000, e i 30 miliardi di euro spesi in R&S solo nel biennio 2001-2002 3.
In termini di posizione comparata, si può notare che il fatturato dell’industria tedesca corrisponde oggi a oltre nove volte il totale dei ricavi netti di FIAT Auto per il 2002, essendo questi ultimi stati indicati dalla stessa casa in 22,1 miliardi di euro (o 23,3 se vi si include la Ferrari) per circa 2 milioni di veicoli prodotti nel mondo. Una ventina di anni fa, il fatturato dell’autoindustria tedesca era grosso modo equivalente a sole due volte quello dell’industria italiana, e quando si fossero detratti i marchi di lusso BMW, Mercedes e Porsche non era lontano dalla parità.
Le commesse e il sostegno alla ricerca dell’industria automobilistica hanno contribuito in Germania al forte sviluppo delle optotecnologie o tecnologie ottiche. Esse si ritrovano in lavorazioni industriali di eccezionale finezza e produttività mediante apparati laser; in terapie mediche e chirurgiche fondate sulla luce; in reti di comunicazione fotoniche aventi una capacità di trasmissione dieci milioni di volte superiore a quella di una connessione ISDN. La litografia è il settore delle optotecnologie che ha conosciuto i maggiori sviluppi industriali, grazie all’impiego sempre più esteso di apparati specializzati nella laser-incisione dei circuiti di microprocessori.
Il fatturato complessivo delle aziende tedesche operanti nel settore delle tecnologie ottiche ha superato nel 2002 i 4 miliardi di euro. La Germania è leader mondiale nel campo degli apparati laser per usi industriali, dove detiene il 40% del mercato; negli altri campi segue da vicino il Giappone e gli Stati Uniti. In Italia si può stimare che la ricerca di base nel campo delle tecnologie ottiche sia abbastanza avanzata, dato il gran numero di dipartimenti universitari e di centri di ricerca del sistema pubblico che se ne occupano. Anche aziende come la Pirelli hanno effettuato investimenti consistenti nella ricerca sulle fibre ottiche (salvo errore, 400 milioni di euro nel 2002). Peraltro sotto il profilo industriale vari segni non lasciano intravvedere un forte sviluppo del settore delle optotecnologie nel nostro paese. La francese Alcatel gestiva a Vimercate un centro di ricerca e reparti di produzione che hanno conseguito negli ultimi anni risultati apprezzabili in termini sia di brevetti sia di produzione. Però il primo agosto 2003 la casa madre Alcatel ha ceduto l’intero comparto optoelettronico alla statunitense Avanex (codice Nasdaq AVX); cosa accadrà a Vimercate non è dato sapere. La realizzazione di una grande rete fotonica della Omnitel/Vodafone è stata affidata alla inglese Marconi. Il Centro di Tecnologie ottiche dello CSELT, il grande centro di ricerca e sviluppo della telefonia che fu della STET, poi di Telecom, è stato ceduto alla Agilent Technologies nei primi mesi del 2000. Dopodiché, l’anno seguente lo CSELT è stato di fatto smantellato dalla Telecom.
Le nanotecnologie non hanno ancora raggiunto la diffusione e il peso economico delle optotecnologie, ma i loro usi industriali cominciano a essere tangibili in USA e in Germania. Il mercato mondiale a queste collegato ha superato da tempo i 50 miliardi di euro l’anno. Tra queste rientrano diversissimi processi di fabbricazione, applicazioni e prodotti (come le nanomacchine) che hanno in comune il fatto di aggirarsi in un campo di grandezze compreso tra 1 e 100 nanometri (un nanometro = un milionesimo di millimetro). Da molti esperti le nanotecnologie sono considerate quelle che maggiormente impronteranno il XXI secolo. La ricerca e la produzione in campi che vanno dall’elettronica alla farmaceutica, dalle macchine utensili alla protezione ambientale ne saranno rivoluzionati. In Germania il Bundesministerium für Bildung und Forschung (ministero federale per la Formazione e la Ricerca) ha costituito sei centri di competenza ai quali partecipano le imprese e i centri di ricerca interessati alle nanotecnologie. L’attività di tali centri è concentrata in campi quali i nanomateriali; i rivestimenti ultrasottili; l’impiego di nanostrutture nell’optoelettronica; la lavorazione ultraprecisa di superfici; strutture e macchine nanometriche. Nulla del genere sembra essere stato istituito in Italia. In totale il sostegno statale per lo sviluppo della nanoscienza e delle nanotecnologie è stato in Germania, per il 2000, di 63 milioni di Euro, e poco meno negli anni precedenti. In Italia esso ha toccato appena la decima parte, 6,3 milioni di Euro. Una situazione del genere lascia prevedere – e lo stesso vale in maggior misura per le tecnologie ottiche – che quando il mercato mondiale avrà raggiunto le dimensioni globali previste, la quasi totalità di esso risulterà occupato dall’industria di altri paesi.
Organizzazione del governo e politica industriale. Concezione e realizzazione d’una efficace politica industriale presuppongono l’esistenza di un ente centrale che la coordini e se ne faccia carico. La partecipazione dei gruppi economici, dei sindacati, delle associazioni di categoria, delle forze politiche è ovviamente essenziale, ma le loro domande e proposte debbono alla fine essere elaborate in modo unitario da un singolo organo al quale viene demandato sia di formulare esso stesso proposte innovative, sia di mettere in pratica le linee che sono state collettivamente concordate. Un simile ente non può che far parte dell’organizzazione del governo nazionale. In tutti i paesi industriali un simile ente compare con evidenza nell’organigramma governativo, di solito entro un singolo ministero, al massimo due.
In Italia le potenziali competenze e gli eventuali poteri di concezione e attuazione d’una politica industriale sono sparsi tra almeno quattro ministeri (o tre e mezzo, giacché uno è senza portafoglio). In ogni caso le prime come i secondi appaiono evanescenti. Il ministero dell’Economia e delle Finanze possiede ancora importanti quote azionarie di grandi imprese (ENEL, Finmeccanica, Fincantieri, ecc.), ma per individuare nell’organigramma qualcuno che se ne occupi bisogna scendere fino alla Direzione VII del dipartimento del Tesoro. Per scoprire poi che essa si limita a funzioni quali: monitoraggio delle partecipazioni finanziarie pubbliche; esercizio dei diritti dell’azionista; gestione dei processi di dismissione e di privatizzazione. Da parte sua il ministero delle Attività produttive si articola in quattro dipartimenti – Mercato, Internazionalizzazione, Imprese, Reti – le cui descrizioni funzionali non comprendono alcun riferimento specifico a settori industriali e tecnologie da sviluppare in via preferenziale, fatte salve le solite menzioni effusive quanto generiche alle ICT (Information and Communication Technology).
Queste ultime sono la specialità del ministro per l’Innovazione e le Tecnologie, che giustamente sono messe in risalto nell’organigramma del suo ministero senza portafoglio, ma nelle quali sembrano esaurirsi tutte le tecnologie esistenti. Chi intravveda il titolo del principale documento proposto dal suo sito – Le cinque grandi iniziative per modernizzare tecnologicamente l’Italia – può credere per un momento di trovarsi dinanzi a un programma di politica industriale e tecnologica a 360 gradi. Ma deve ricredersi non appena apra l’indice: le ‘grandi iniziative’ consistono infatti in PC e Internet agli italiani; Carta d’identità elettronica; Innovazione nei grandi sistemi nazionali (sanità, scuola); Diffusione ICT nelle imprese; Federalismo efficiente (con la precisazione che l’obiettivo è un “modello di Pubblica Amministrazione efficiente decentrato, ma integrato con le tecnologie di rete”).
Resta il ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca (MIUR). Nella parte URST (Università e Ricerca Scientifica e Tecnologica) dell’organizzazione del MIUR l’unico ente che appare occuparsi di tecnologia e ricerca industriale è il Servizio per il potenziamento dell’attività di ricerca. Peraltro la descrizione delle sue funzioni mette subito in chiaro che esso non si occupa di definire determinate priorità scientifico-tecnologiche per poi contribuire a porre in essere le condizioni per la loro attuazione, con l’intervento programmato di attori pubblici e privati – l’essenza di una politica industriale – quanto di sovrintendere alle modalità di concessione di agevolazioni alla ricerca industriale in generale, avendo particolare cura nel non privilegiare alcuna particolare linea di essa.
A differenza dell’Italia, i ministeri dell’economia e della ricerca dei maggiori paesi europei mostrano d’avere una organizzazione strutturata in modo da conferire sin dai massimi livelli competenze e responsabilità specifiche nel campo della politica industriale e tecnologica. Il Bundesministerium für Wirtschaft und Arbeit (BMWA) della Germania comprende dodici Abteilungen o dipartimenti, facenti capo a sei sottosegretari, che posseggono ampi poteri di iniziativa e di coordinamento in campi quali la politica economica (A. I); l’industria e la protezione ambientale (A. IV); la politica della tecnologia e dell’innovazione (A. VI); le piccole e medie imprese, l’artigianato, i servizi (A. VIII); l’energia (A. IX). Va sottolineato che dopo l’accorpamento nel settembre 2002 delle competenze prima assegnate al ministero del Lavoro, altri dipartimenti del BMWA collocati allo stesso livello dei precedenti si occupano di politica del mercato del lavoro (A. II) e di diritto e tutela del lavoro (A. III). Sempre in Germania, l’analogo del MIUR, il Bundesministerium für Bildung und Forschung, comprende un dipartimento Informazione, Comunicazione e nuove Tecnologie, articolato in sezioni che si occupano specificamente, tra l’altro, della promozione di ricerca, sviluppo e applicazioni industriali in settori quali nanomateriali, nanoelettronica e nanosistemi; sistemi e tecnologie di produzione; tecnologie ottiche; microsistemi; brevetti; software per l’IC.
Nel Regno Unito il ministro complessivamente responsabile del Department of Trade and Industry sovrintende all’attività di tre ministri e due sottosegretari, su un totale di sei, che si occupano tutti primariamente di temi connessi alla politica industriale: a. energia, sviluppo sostenibile, industrie delle comunicazioni e dell’informazione; b. industria e corporate governance; c. politiche commerciali ed esportazione; d. piccola e media industria (PMI), costruzioni, beni e servizi per il consumatore; e. scienza e tecnologia, politiche dell’innovazione, bioscienza e prodotti chimici. Quanto alla Francia, subito al disotto del Ministre de l’Economie, des Finances et de l’Industrie, si trova un altro ministro con delega – attuata per il tramite di altrettante direzioni generali – per l’industria e le tecnologie dell’informazione; l’energia e le materie prime; le tecnologie dell’informazione; la sicurezza nucleare e la radioprotezione.
In Italia, al vuoto organizzativo a livello di governo in tema di politica industriale pare corrispondere, in una infeconda relazione dialettica, il vuoto delle idee. Si veda il rapporto L’economia industriale italiana. Tendenze, prospettive, politiche, predisposto nella primavera del 2003 dal ministero delle Attività produttive (MAP) in vista del semestre di presidenza italiana della UE. Vi si legge: “La politica industriale è orizzontale per natura e mira ad assicurare le condizioni generali favorevoli alla competitività dell’industria. […] In ogni caso la politica industriale ha bisogno di tener conto delle necessità specifiche e delle peculiarità di ogni settore. Perciò, inevitabilmente la politica industriale unisce una base orizzontale e applicazioni settoriali” (p. 29). Una volta edotto in modo sì penetrante dei caratteri della politica industriale, il lettore viene informato circa le politiche orizzontali del MAP. Si esplicano in cinque campi: 1. energia. Qui “l’obiettivo è duplice: più offerta di energia; più liberalizzazioni e semplificazioni”. 2. Sperimentazione preindustriale, “per costituire uno zoccolo duro tecnologico a disposizione delle imprese, specie di quelle di dimensioni minori”. 3. Sostegno finanziario alle imprese che applichino – nullameno – “le più avanzate tecnologie IC ai loro modelli organizzativi”. 4. Internazionalizzazione delle imprese, mediante un’apposita “autostrada per l’internazionalizzazione”. 5. Credito alle PMI (pp. 31-33). Se le politiche orizzontali appaiono alquanto indefinite, si può passare alle applicazioni settoriali, poiché “Il MAP tiene conto delle necessità specifiche e delle peculiarità di molti settori industriali. A titolo esemplificativo: “a. chimica – il ministero è impegnato: nell’elaborazione di nuove linee politiche di rilancio della chimica italiana; nella conseguente riconversione dei siti produttivi […]. b. Auto – il ministero ha coordinato un Tavolo con la partecipazione della presidenza del Consiglio, del ministero del Welfare, di FIAT e delle organizzazioni sindacali, che nello scorso mese di novembre 2002 ha analizzato il piano industriale di FIAT Auto […]. c. Meccanica: – il ministero cura gli approfondimenti del Piano nazionale dell’industria meccanica […]” (pp. 33-34).
Una lettrice o un lettore potrebbero sentirsi insoddisfatti per la circostanza che mentre il nostro MAP discute, quanto a obiettivi di politica industriale, di crediti alle PMI, di riconversione di siti produttivi e di tavoli per analizzare piani industriali di aziende in crisi, i ministeri dell’industria di Germania, Francia e Regno Unito tracciano vasti e dettagliati programmi di sviluppo in settori che si chiamano aerospaziale; nanotecnologie; biotecnologie; tecnologie ottiche e optoelettroniche; nuove fonti energetiche. Lei o lui potrebbero allora provare a rivolgersi alle Linee guida per la politica scientifica e tecnologia del governo, documento interministeriale dell’aprile 2002. In effetti le affermazioni di principio, seppur di tono scolastico, appaiono qui avere quantomeno presenti gli aspetti più rilevanti d’una politica tecnologico-industriale: “Bioscienza, Nanoscienza ed Infoscienza, opportunamente orientate dall’etica dei valori, tendono a caratterizzarsi come i motori della crescita e dello sviluppo sostenibile nei prossimi decenni” (p. 10) Tuttavia, quando uno cerchi di afferrare quali sono i contenuti del “nuovo approccio strategico della politica scientifica nazionale”, si imbatte in una lunga serie di asserzioni d’una disarmante genericità: “puntare sullo sviluppo e sull’emersione delle capacità innovative delle PMI”; “realizzare […] strutture di eccellenza idonee ad attrarre investimenti italiani e stranieri in settori produttivi caratterizzati da un’alta intensità di conoscenza”; “promuovere la crescita nei ricercatori pubblici di nuova imprenditorialità in settori ad elevato contenuto tecnologico”; “incentivare le relazioni tra Scienza e impresa…”. Seguono alcune tabelle che indicano in qual misura una serie di “tecnologie abilitanti”, tipo le biotecnologie, la microelettronica o la optoelettronica interagiscono positivamente su alcuni settori prioritari. Da queste si ricavano indicazioni particolarmente chiarificatrici per meglio comprendere i nessi tra tecnologia e industria. Viene prospettato, ad esempio, che l’informatica avanzata interagisce positivamente con l’informatica e le telecomunicazioni, mentre le biotecnologie interagiscono molto con il settore salute e poco con i beni culturali. (pp. 12-16, e Tab. 2).
Politica industriale e politiche sociali. Una politica industriale è al tempo stesso, se non forse prima di tutto, un atto politico, in specie di politica sociale. A seconda di come viene ideata e realizzata essa risulterà capace di arricchire i ricchi e impoverire i poveri, oppure di ridurre la distanza sociale tra le due classi; di rendere l’occupazione più o meno sicura, il lavoro più o meno gratificante, la società più civile o più barbara. Ad onta delle dottrine neoliberali, uno S. collocantesi nella parte alta della scala non richiede affatto che la politica industriale sia progettata in modo da peggiorare intenzionalmente tutti i suddetti indicatori della qualità di una società, come accade quando mercato e imprese sono liberate da ogni vincolo. Tuttavia una politica industriale che non sia disegnata avendo nel proprio nucleo un orientamento esplicito a far sì che i suoi diversi strumenti producano il meglio di una politica sociale, piuttosto che il peggio, equivale a sottoscrivere un impegno a favore di quest’ultimo.
Per riassumere e precisare gli argomenti sin qui svolti:
– l’indicatore più attendibile dello S. di un paese è lo stato del suo apparato industriale. Negli ultimi lustri l’Italia ha perso o fortemente ridotto la sua capacità industriale in settori di permanente rilevanza strategica quali l’informatica e la chimica, l’aeronautica civile e l’elettromeccanica high tech. Perciò, sebbene il tasso di sviluppo attuale del PIL sia in essa analogo a quello dei maggiori paesi UE, lo S. Italia si colloca parecchio al disotto della loro media.
– Il grave indebolimento produttivo e finanziario dell’industria automobilistica ha di fatto privato l’Italia di uno dei settori dotati di maggior capacità di traino dell’innovazione tecnologica a vantaggio dell’intera economia. Con l’aggravante che in Italia non ne esiste più nessun altro.
– Nel campo delle tecnologie ottiche – una delle due o tre tecnologie di cui è ormai evidente la rilevantissima incidenza che avranno per decenni sull’economia di questo secolo – ad onta del numero e della qualità dei suoi centri di ricerca la produzione industriale italiana appare ormai in grave ritardo a confronto degli altri paesi europei. È pertanto assai probabile che l’Italia possa puntare al massimo, a medio termine, ad occupare qualche modesta nicchia specializzata sul mercato internazionale. Nel campo delle nanotecnologie le prospettive sono ancora peggiori.
– Laddove volesse competere nella fascia medio-alta, sotto il profilo tecnologico, delle produzioni industriali del prossimo futuro, l’Italia dovrebbe puntare ad elevare rapidamente di almeno tre anni il livello medio di formazione professionale del 50%, quello meno scolarizzato, delle sue forze di lavoro.
– A differenza di tutti i principali paesi UE, l’Italia non dispone di una struttura di governo nemmeno lontanamente idonea a concepire e realizzare una politica industriale, che è fatta di scelte risolute in tema di R&S e di produzione, di ordini di priorità e di azioni conseguenti. Peraltro è proprio questo l’ambito in cui dovrebbe essere più agevole per una nuova maggioranza, e finanziariamente meno proibitivo, avviare una riforma incisiva, ridisegnando la struttura e le funzioni dei ministeri. Se qualcuno nel centro-sinistra stesse mai lavorando a un programma per le prossime elezioni, suggerirei di farsi un appunto a tal fine. Potrebbe anche essere l’occasione per infondere un contenuto moderno e realistico all’idea finora fantasmatica a sinistra, e prettamente reazionaria a destra, di modernizzazione.
Una politica industriale dovrebbe includere tra i suoi capitoli salienti proposte finalizzate a far sì che gli interventi nel campo della struttura produttiva, delle tecnologie, dell’istruzione e della ricerca producano, insieme con un miglioramento dello S. Italia, anche beni pubblici globali quali minori disuguaglianze; maggior sicurezza dell’occupazione e del reddito; uno sviluppo quantitativo e qualitativo della produzione e dei consumi tale da renderli sostenibili; un livello più elevato di protezione e riproduzione dell’ambiente. Al presente, in relazione a quasi tutti questi punti l’Italia e l’UE procedono, anche sotto il profilo delle direttive istituzionali, in direzione contraria. Pure qui s’attende che qualcuno batta un colpo, a sinistra.

note:
1 Le ho brevemente analizzate nell’ultimo capitolo di La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003.
2 E. Hein, B. Mülhaupt, A. Truger, Wirtschafts- und Sozialwissenschaftliche Forschungsinstitut, WSI – Standortbericht 2003: Standort Deutschland – Reif für radikale Reformen?, “WSI Mitteilungen”, giugno 2003, pp. 331-343. Il Wsi è un affermato istituto di ricerche sui rapporti tra sviluppo economico e condizioni di lavoro.
3 Un ampio servizio sull’industria dell’auto in Germania, definita una efficiente Job Maschine, è stato pubblicato da “Der Spiegel”, 8 settembre 2003. Altri dati si possono trovare nel rapporto del Bundesministerium für Wirtschaft und Technologie (dal settembre 2002 Bundesministerium für Wirtschaft und Arbeit – BMWA) su Die Deutsche Industrie. Europa- und Weltweit in der ersten Reihe, del 2001, disponibile on line, e nel sito del BMWA, sotto Wirtschaft/Branchenfocus/ Automobilindustrie.