Profughi senza voce in un paese in bilico

A Burj El-Shemali c’è ancora odore di caffè nero. Lo hanno bevuto per il funerale di Nisrin, che se n’è andata nel sonno, a 75 anni. Dopo di lei, non restano in molti ad aver visto, prima dei tetti di lamiera delle baracche del campo, il cielo di Palestina. Nei campi profughi del Libano, la generazione degli esuli scompare. Di quei primi 100.000 che nel 1948 arrivarono qui in fuga dall’avanzata delle truppe dell’haganah, sono rimasti in pochi, il 10% di una popolazione che oggi ammonta a circa 400mila persone. Ma è gente, questa, con una memoria ostinata.
Gli adulti continuano a conservare i documenti delle terre lasciate dai padri, i bambini a disegnare alberi carichi degli enormi pompelmi di Jaffa e i vecchi a tenere in un cassetto chiavi di porte che non riapriranno mai. La memoria, dopotutto, è l’unica risorsa per chi, in attesa del ritorno in patria – diritto sancito fin dal 1948 dalla risoluzione 194 del consiglio di sicurezza dell’Onu -, vive in una terra che lo tollera ma non lo riconosce. Privi dei diritti civili, esclusi dall’accesso a 73 professioni e ai servizi pubblici come sanità e istruzione, i palestinesi in Libano (quasi il 10% della popolazione), considerati una minaccia per i fragili equilibri demografici e confessionali dello stato, non sono proprietari nemmeno del suolo delle proprie case. E oggi, nel paese che mostra ancora le cicatrici della Guerra dei 34 giorni dell’estate scorsa e che resta in bilico sul filo di una crisi istituzionale che ha paralizzato il governo, i profughi si ritrovano ai margini del dibattito politico e dall’agenda delle priorità sociali, colpiti dalla recessione economica che ha investito l’intera nazione. «Prima della crisi – ci dice Kassem Al Aina, direttore dell’ong palestinese Beit Atfal Assomoud, che da vent’anni assiste gli abitanti dei campi – un comitato governativo si era impegnato a migliorare le condizioni di vita dei rifugiati, ma ora tutto si è fermato, mentre la disoccupazione è arrivata al 60% e più di 45.000 palestinesi vivono sotto la soglia di povertà».
La strada per Shatila
Abheid ha 30 anni, il sogno di vedere Londra e lo sguardo rassegnato di chi sa che non lo farà mai. A lui, come a tutti gli altri profughi, serve un visto speciale per lasciare il Libano, e per i soldi del biglietto chissà se gli basterà una vita. Non gli è stato sufficiente l’inglese affinato in anni di studio per trovare un lavoro, e di futuro Abheid non vuole nemmeno sentirne parlare: «Non mi interessa, perché so di non averne uno», dice, mentre ci guida verso Shatila. Appena un cenno quando ci avviciniamo al luogo dove sono sepolte le vittime del massacro del 1982, uccisi in 3000 dai falangisti libanesi sotto gli occhi complici delle truppe israeliane comandato da Ariel Sharon. C’è il sole sul prato irregolare che copre il terreno della fossa comune. Ma basta girare l’angolo, e addentrarsi tra i vicoli, perché il sole resti impigliato nella ragnatela di fili elettrici che avvolge le case e nelle contorsioni di un cemento che arriva sempre più in alto, inseguendo i bisogni di una comunità che cresce – circa 17.000 abitanti su una superficie di 1 kilometro quadrato – ma che non può espandersi oltre perimetro assegnato al campo. Qui si vive in penombra, stretti in sei in una stanza, appesi a un allaccio abusivo che permette di rischiarare il buio con una lampadina fioca e ai contributi irrisori (circa 70 $ annui a persona) distribuiti dall’Unrwa, l’agenzia delle nazioni unite per il soccorso dei profughi palestinesi. «Aiutiamo questa gente come possiamo – ci dice Jamila, responsabile del centro Assomoud che incontriamo a Shatila – diamo una mano per i problemi di sopravvivenza quotidiana, curiamo 130 orfani e di 60 famiglie particolarmente disagiate. Forniamo assistenza a chi ha bisogno di cure mediche».
Libri e fucili
Sulla sua scrivania, si accumulano i formulari compilati per accedere ai finanziamenti dell’Health care society, che aiuta i malati a coprire il 50% del costo delle cure. «Praticamente in ogni famiglia c’è qualcuno che si ammala», dice. Si ammalano gli adulti (il tasso di malattie croniche e di invalidità è stata stimato dall’Unrwa al 50%) e si ammalano i bambini (la mortalità infantile è di 239 su 1000), per le precarie condizioni igieniche dei campi e perché «le loro madri non hanno soldi per comprare il latte». Per quelli che resistono, però, bisogna pure sforzarsi di immaginare un domani. «Cerchiamo di incoraggiare i ragazzi a non lasciare la scuola, anche se a volte sembra tutto inutile: soltanto il 5% di quelli che hanno studiato trovano effettivamente lavoro».
Sulla strada che porta al sud il sole scalda ettari di frutteti rimasti incolti. Campi deserti che seguono la linea del mare dove oggi nessuno mette più piede, perché le cluster bomb lanciate l’estate scorsa da Israele infestano ancora il terreno. A coltivarli, erano soprattutto i palestinesi che vivono tra Tiro e Sidone, l’80% dei quali era impiegato nell’agricoltura. «Durante la guerra nessuno ha potuto lasciare il campo, non c’era acqua né cibo e gli uomini non potevano lavorare. Oggi chi è fortunato lavora 10 giorni al mese e in questo modo è impossibile mandare avanti le famiglie». A parlare è Mahomond El-jouma, responsabile del centro Assomoud per il campo di Burj El-Shemali, ai confini di Tiro. «Chiediamo all’Onu di aiutarci, fino ad ora il sostegno è andato solo ai villaggi libanesi, ma anche a noi la guerra ha lasciato in eredità una miseria ancora peggiore di prima». A Burj El-Shemali – 20mila abitanti per un kilometro quadrato – e negli altri campi del sud, per entrare e uscire si deve scrivere il proprio nome, come in prigione. E le facce dei soldati libanesi, che presidiano tutti gli ingressi, si sono fatte più scure anche qui, da quando, nei giorni scorsi, due palestinesi sono stati accusati di aver partecipato all’attentato che ha colpito Beirut il 13 febbraio scorso e nel campo di Nahr al-Bared, vicino Tripoli, è stata segnalata la presenza di miliziani del gruppo integralista Fatah al-Islam.
Ma a Burj El-Shemali Mahomud continua la sua battaglia: «Non possiamo ridurci a combattere solo con i fucili, bisogna insegnare ai nostri figli a usare le armi della cultura. Nel centro seguiamo 120 studenti al giorno, 5 giorni la settimana. Solo il 30% dei ragazzi continua gli studi dopo le elementari: noi cerchiamo di formarli come idraulici, elettricisti, meccanici e abbiamo chiesto al governo libanese un permesso per rilasciare licenze professionali. Dobbiamo dare ai giovani una speranza».
L’orizzonte del futuro
«Speranza», tra questa gente, è una parola che ricorre spesso. La pronuncia Nadia, che ha 21 anni e vive, con sette fratelli, una malattia di cui non sa il nome e un figlio appena nato, nell’accampamento di Al-Shaleihat (una delle tante baraccopoli dove si ammassa chi non trova spazio nei campi), 450 famiglie strette in baracche col tetto di eternit a respirare un’aria che sa di stalla e di caffè bruciato. Mostra la foto del suo matrimonio e spera di guarire, dice, «perché così magari un giorno avrò una casa vera».
Parla di speranza Mai Masri, la regista che – nata in Libano da padre palestinese – ha raccontato con i suoi film (da Children of Shatila a Frontiers of Dreams and Fears) l’identità sradicata di questi profughi : «Oggi non c’è più nessuno che abbia la volontà politica di risolvere il problema dei palestinesi. All’orizzonte non ci sono prospettive di miglioramento, ma, anche in questa situazione, bisogna sforzarsi di trovare un aspetto positivo: nel luglio 2006, durante l’attacco di Israele, i palestinesi hanno aperto le loro case ai libanesi in fuga dalle bombe. Per una volta, sono stati loro i “rifugiati”, e ciò ha creato legami che speriamo diano i loro frutti in futuro».
Parla di speranza, infine, anche Kassem al-Aina. Spera che nel paese «si insedi presto un governo di unità nazionale, in grado di riprendere il dialogo con i rappresentanti della comunità palestinese. Vogliamo la pace per il Libano, perché un’eventuale guerra civile non farebbe altro che peggiorare la nostra situazione. Chiediamo di tornare nella nostra terra, ma, prima che questo accada, i libanesi dovranno decidersi a riconoscerci i diritti che ci spettano e a guardarci come esseri umani».