Primavera di sangue

Quest’anno in Afghanistan la primavera è arrivata prima della data ufficiale del calendario. Primavera di sangue. Annunciata sia dai talebani che dalla Nato “l’offensiva di primavera” è iniziata, con un pesante carico di vittime civili.

Domenica a Jalabad le truppe NATO reagendo ad un attacco degli insurgents hanno provocato una mattanza che ha coinvolto donne e bambini. Che i marines avessero responsabilità da nascondere è provato dal sequestro e dalla distruzione delle riprese dell’accaduto, fotografiche e televisive. A distanza di due giorni è iniziata nella provincia di Helmand, a sud ovest, da parte della NATO, l’operazione Achille (già il nome la dice lunga) che mobilita 4500 soldati della Nato e mille afgani. Per ora il bilancio è di un morto dell’Alleanza Atlantica: si tratta comunque di un macabro conteggio, purtroppo destinato a crescere, che si somma ai 4000 morti in scontri e attentati, avvenuti nello scorso anno. La carneficina di civili afgani prosegue ormai da mesi e assomiglia sempre più a quella irachena. Il crescendo di ostilità della popolazione afgana nei confronti delle forze di occupazione -a distanza di 6 anni dall’invasione- ci parla di responsabilità precise. Non solo non si sono conquistati “cuori e menti” ma si sta approfondendo, in sempre più larghi strati della popolazione, l’avversione nei confronti del Governo Karzai e delle forze occupanti che avevano promesso ricostruzione, occupazione, condizioni di vita decenti.

Oggi, contro Karzai ed i suoi sostenitori, troviamo accanto ai talebani diversi signori della guerra, prima alleati del presidente, e molti capi tribali. Allora il punto diventa: è pensabile che la NATO faccia la guerra a tutto l’Afghanistan?

Pesa anche -non è la prima volta che lo diciamo- sull’efficacia di tutta l’Alleanza, l’asprezza dell’approccio armato delle truppe USA (sparare nel mucchio), che, anche quando sono vittime di un attacco, peccano, come mimino di un “eccesso di autodifesa”. Il fatto che il contingente NATO sia oggi al comando del generale Mc Neill, lo stesso che è a capo di Enduring Freedom (e in cima alla catena di comando delle truppe che a Bagram qualche anno fa torturano diversi prigionieri) ha accentuato il carattere offensivo della missione.
Il doppio berretto (NATO e E.F.) di Mc Neil non aiuta a mantenere distinti i confini della missione italiana che è ISAF a comando NATO, non Enduring Freedom.
La differenza tra le due missioni è, lo ricordiamo ancora una volta, non solo nominalista. Diverso è il profilo giuridico e diverso è il compito: peace keeping e instituion building per ISAF, peace enforcing (uguale “combat”) per Enduring Freedom.

È ovvio che in questo scenario, sempre peggiore, il voto nel nostro Parlamento diventi sempre più sofferto: stare in un’alleanza che spara sui civili è oggettivamente insopportabile. Conforta che anche il ministro D’Alema lo giudichi così “occorre una riflessione molto seria su come stanno andando le cose e su cosa si può fare perché vadano meglio. Ad esempio non uccidere i civili sarebbe un modo per farle andare molto meglio….” Non solo, aggiungiamo noi: che l’Italia abbia mandato le sue truppe in Afghanistan è stato un errore; che oggi le nostre truppe siano sottoposte al comando NATO a guida USA è un aggravante.

Le domande restano: per quale fine concreto -al di là di una ricostruitone mai avvenuta- stiamo in Afghanistan? Oggi, molti afgani chiedono agli eserciti stranieri di restare per garantire sicurezza: questo dovrebbe convincerci almeno ad una riconfigurazione della missione. Da militare a missione di polizia e sicurezza. C’è da rifletterci.

*Senatrice Ds