Forma ambigua di democrazia, servono a legittimare Prodi
Non c’è dubbio che la realizzazione delle primarie interne al centrosinistra abbia contribuito a riattivare l’attenzione verso questa parte dello schieramento politico e abbia permesso allo stesso Prodi di uscire dall’imbuto in cui l’offensiva neocentrista della Margherita l’aveva infilato. Così come non sfugge l’attenzione che sta catalizzando la candidatura del segretario del nostro partito alle primarie medesime, individuato, a ragione, come alternativa di sinistra e come pungolo possibile per ottenere un programma e una compagine di governo, qualora l’Unione vincesse le elezioni, più avanzati.
Nonostante queste considerazioni, le primarie non riescono a convincermi: troppe sono, a mio avviso, le controindicazioni e gli elementi di pericolosità che comporta la loro scelta. Provo ad argomentarne almeno quattro.
1. Il loro svolgimento rappresenta, nolenti o volenti, un approfondimento del processo di americanizzazione (ovviamente nell’accezione negativa) che ha colpito la politica italiana da oltre dieci anni in qua. Personalizzazione e mediatizzazione sono effetti di un confronto per forza di cose semplificato e diretto a sancire la supremazia del “personaggio” sulla politica che intende rappresentare. Inoltre, nel debole bipolarismo italiano, le primarie rappresentano un ulteriore tassello che incide sul suo consolidamento e sul rafforzamento di quel sistema maggioritario che invece dovremmo contribuire a seppellire. Parteciparvi, nonostante le innegabili possibilità di “propagandare” le nostre idee e i nostri programmi, ha come contropartita l’avallo a questo sistema con un peggioramento netto della qualità della politica italiana.
2. Le primarie costituiscono una forma ambigua e respingente di democrazia. La consultazione diretta, in luogo di scelte costruite al tavolo dei vertici partitici, può certamente apparire come una forma avanzata di democrazia. Ma è solo un’illusione. Innanzitutto perché la democrazia attivata in questo percorso è meramente consultiva e quindi passiva. Cosa ne rimane dopo, quali sedimentazioni si producono? O non è vero che nella Puglia di Nichi Vendola, terra di grande partecipazione alle primarie, tale da costituirne un modello di riferimento, al referendum sulla legge 40 si è registrata una delle percentuali di affluenza al voto più basse del paese? Quale meccanismo virtuoso si innesca tra scelta del candidato e la qualità di una democrazia più partecipata? L’esperienza ha dimostrato che la risposta è negativa.
In secondo luogo, la democrazia diretta, partecipata, in grado di produrre trasformazioni è sempre connessa al conflitto, all’organizzazione delle lotte e alla effettiva possibilità di autodecisione dei vari soggetti coinvolti. Che si percepiscono non più come “masse” indistinte, o come elettori, ma, appunto, come soggetti che rivendicano, fanno scelte, propongono obiettivi, provano a raggiungerli. Maturano una politicità e una “soggettività” che prima le erano estranee. Le primarie contribuiscono a rendere massificata, e quindi indistinta, la partecipazione che alla lunga diventa ininfluente, specialmente se a dominare sono gli apparati di partito o i grandi mezzi di comunicazione. Le primarie costituiscono un arretramento nella misura in cui vengono presentate, o vengono percepite, come una forma avanzata di democrazia, come il massimo ottenibile, come l’unico luogo possibile del confronto. E si trasformano in un rafforzativo della delega con effetti negativi sulla possibilità del conflitto sociale. Si tratta, in realtà, di un espediente che registra una fase di difficoltà dei movimenti di massa – che vengono “dirottati” su una partecipazione minore ma comunque efficace, dal punto di vista di chi le propone – ma non la risolve, anzi l’aggrava. Perché all’interno della consultazione non c’è nulla che alluda all’organizzazione del conflitto, né all’elaborazione programmatica collettiva, elementi fondanti di una selezione delle leadership e delle direzioni anche politiche. Il programma contro Berlusconi e per un’alternativa di società lo si scriverebbe in maniera molto più chiara e partecipata se si attivasse una vera iniziativa sociale sulla politica economica, sulla rendita finanziaria, sulla questione del salario e dei contratti. Da lì emergerebbero proposte e ipotesi di lavoro convincenti.
3. Nel contesto dato, pur producendo uno sblocco della situazione dal punto di vista della “manovra politica”, le primarie costituiscono una legittimazione definitiva – nella previsione della sua vittoria – della leadership di Romano Prodi sull’alleanza e della sua opzione riformista. Che sarà pure distinta da quella di Rutelli o di Fassino ma non nelle cose che contano. Basta guardare alle dichiarazioni dei tre su Montezemolo e sulle “necessità” dell’economia italiana per rendersene conto. Questa legittimazione avviene in assenza di un vero confronto programmatico all’interno dell’alleanza e di una disputa che misuri l’effettiva convergenza su un’ipotesi di governo possibile. In realtà si rovesciano i fattori: il governo è sancito in partenza da un accordo interpartitico – la “clausola Mastella” – il premier è scontato, le primarie servono a rafforzarlo e, nella nostra ottica, a rafforzare il profilo di una candidatura di sinistra alternativa. Che, ovviamente, potrebbe risultare premiata, ma solo perché assenti le candidature dei dirigenti Ds. Un nostro successo rappresenterebbe quindi un’illusione ottica che non avrebbe corrispettivo sul piano dell’influenza sociale, del radicamento di massa del partito e dei rapporti di forza tra partiti della sinistra.
4. Ultimo motivo di disaccordo è lo snaturamento del profilo complessivo del nostro partito che diviene, non più un “terzo protagonista” accanto ai due grandi poli del bipolarismo ma ala sinistra del centrosinistra, o dell’Unione come si chiama adesso. Un’alleanza che, lungi dal porsi come interlocutore privilegiato dei movimenti, si presenta soprattutto come luogo privilegiato di una competizione riformista della quale la natura dello scontro tra Rutelli e Prodi e la portata dell’offensiva neocentrista mostrano la profondità. Sancendo la propria internità al centrosinistra con la partecipazione alle primarie, Rifondazione finisce per essere uno dei soggetti dell’alleanza e non più quel soggetto anomalo che è stato finora. Tanto che il Pdci può oggi proporre la riunificazione di ciò che la scissione aveva diviso.
Come si vede sono argomenti diversi e a questi altri se ne potrebbero aggiungere. Ovviamente, la competizione che si svolgerà l’8 e 9 ottobre prossimi costituisce un dato di fatto ma questo non deve significare confinarsi a una pratica che ci appare errata. Per questo, sarebbe molto importante, al di là delle primarie, tenere il filo della necessaria mobilitazione sociale, ormai determinante per il prossimo autunno viste le ipotesi di stangata sociale che il governo sta studiando. Come partito, come movimenti, bisognerà proporsi di organizzare una risposta, la più ampia possibile, alla politica economica e sociale del governo, ma anche alla sua politica di guerra e di attacco ai migranti. Da più tempo proponiamo la realizzazione di una grande manifestazione sociale che sia promossa dalla sinistra antiliberista e dai movimenti e che costituisca l’avvio di quella campagna elettorale che dovrà cacciare il governo Berlusconi. Una campagna che senza le lotte e i movimenti sarà dominata dai temi neocentristi e riformisti e che alla lunga potrebbe rivelarsi inefficace. Sono quelle lotte che vanno organizzate da subito, senza attendere l’esito delle primarie.