La vittoria di Niki Vendola nelle primarie pugliesi è un fatto importante poiché, per la prima volta, consentirà a Rifondazione Comunista di avere un candidato alla presidenza di una grande regione.
E’ un successo che conferma la grande popolarità e lo straordinario radicamento del nostro candidato che, come già si era visto alle recenti elezioni europee nelle quali Vendola raccolse moltissime preferenze, in questi anni ha sempre saputo mantenere un rapporto positivo con il proprio territorio.
Questo test, pur nella sua parzialità, conferma altresì che pensare di battere la destra cercando i candidati che abbiano profili moderati e che non “spaventino” l’elettorato di centro è una ricetta perdente. La scelta di Boccia, candidato rispettabile ma incapace di trasmettere qualsiasi messaggio in grado di entrare in sintonia con il popolo della sinistra pugliese, si è rivelata, per la componente moderata del centrosinistra, sbagliata.
Al contrario la candidatura di Niki Vendola ha saputo suscitare speranze in un cambiamento vero per una regione che, oltre ad avere a che fare con uno dei peggiori governi regionali del centrodestra, vive in modo sempre più drammatico i problemi della disoccupazione, della criminalità, del degrado ambientale, della mancanza di tutto quello che è essenziale per poter vivere in modo dignitoso.
Siamo quindi soddisfatti del risultato. Adesso il nostro impegno deve essere quello di riuscire a vincere, la vera sfida, contro la destra di Fitto. Un nostro successo consentirebbe a Rifondazione non solo di governare una importantissima regione, ma anche di dimostrare ulteriormente e ad un livello ancor più significativo di quanto non sia avvenuto nella recente tornata amministrativa (elezione di diversi sindaci e di un presidente di provincia) che anche i candidati di Rifondazione possono battere le destre e debbono quindi essere considerati alla pari degli altri.
Il successo del compagno Vendola non ci induce tuttavia a modificare il nostro giudizio sul meccanismo delle primarie che rischia di diventare una modalità sempre più utilizzata per la scelta delle candidature e nei confronti del quale confermiamo tutta la nostra contrarietà. La positività o la negatività di una scelta politica non può essere determinata dal fatto che essa in una occasione possa consentirci un risultato positivo, come è avvenuto in questo caso in Puglia. Per una forza politica come Rifondazione Comunista che si è sempre battuta contro il presidenzialismo, contro il maggioritario, contro la americanizzazione della politica e per un ritorno al sistema proporzionale, crediamo che non dovrebbero esserci dubbi: le primarie sono un tassello fondamentale per rafforzare le tendenze regressive al maggioritario e alla personalizzazione della politica e perciò le dobbiamo contrastare.
A questo proposito allego un lucidissimo intervento di Enrico Melchionda, apparso sul manifesto il 3 dicembre, che spiega la totale incompatibilità tra primarie e reale partecipazione democratica.
Claudio Grassi
17 gennaio 2005
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Primarie
di Enrico Melchionda*
su Il Manifesto del 03/12/2004
Un rimedio peggiore del male
Centrosinistra: il colpo definitivo a quello che resta dei partiti
Trovo sorprendente che la proposta delle primarie non abbia suscitato nel centrosinistra nessuna obiezione di principio. Dopo che a luglio scorso Prodi l’ha messa sul piatto del suo rientro, ho aspettato per quattro mesi che qualcuno dicesse un no sostanziale, ma niente. Al massimo, dubbi di carattere procedurale o contingente, schermaglie tattiche o strumentali. Nessuno che ne contestasse la logica di fondo.
Nel frattempo abbiamo assistito alle discussioni e alle polemiche più inverosimili e nominalistiche, come quelle sul nome e sul posizionamento del centrosinistra, ma sulle primarie l’unico problema su cui ci si è appuntati è stata la candidatura di Bertinotti. Fino al punto di far dire al segretario dei Ds che in un’alleanza politica «ci si divide sul programma, non sulla leadership». Ci sarebbe di che rimanere sbalorditi se non sapessimo come funzionano le coalizioni dopo l’introduzione del maggioritario e quanto abbia sfondato la personalizzazione della politica nel nostro sistema. E’ vero, alcuni hanno provato timidamente a proporre che le primarie si svolgessero sul programma piuttosto che sul leader. Tuttavia, di fronte alle difficoltà pratiche, hanno subito fatto marcia indietro, dimostrando che la loro era solo una boutade. Il risultato è che le primarie sono entrate pacificamente nell’agenda politica del centrosinistra, considerate un passaggio cruciale in quella che si immagina (troppo ottimisticamente) come una marcia trionfale verso la riconquista del governo. In esse si vede lo strumento ideale per creare quella partecipazione che riduca la distanza tra partiti e popolo del centrosinistra, già esplosa in modo eclatante con il fenomeno dei girotondi, e che soprattutto legittimi democraticamente una leadership la quale, priva di risorse proprie, deve unificare una coalizione eterogenea e litigiosa. Niente di strano quindi che la procedura preveda una sola candidatura effettiva. Ma, poiché pur sempre di una consultazione elettorale si tratta, appare altrettanto ragionevole che ci sia chi presenterà la sua candidatura di bandiera, anche se beninteso rigorosamente non alternativa a quella del prescelto.
Ebbene, a me tutto questo pare il segno, se non di un impazzimento, certo di una degenerazione profonda della cultura politica nel centrosinistra. In tutte le sue componenti, purtroppo. Sono anni che le sentiamo polemizzare con i fenomeni del populismo e del direttismo, paventare i «pericoli plebiscitari» e l’americanizzazione della nostra vita politica. Però al momento opportuno, quando sono in gioco scelte pratiche, la direzione che prendono è proprio quella. Sarebbero tanti gli esempi da fare, negli ultimi quindici anni. Ma basta vedere a che cosa sono stati ridotti i partiti per rendersene conto. Privati ormai di funzioni partecipative, essi sono oggi puri strumenti politici del leader di turno, per il resto affaccendati a tempo pieno nella promozione del proprio personale politico. Ma a quanto pare tutto questo non è bastato: tanto vale andare fino in fondo. Ecco allora le primarie.
Non esiste forse un meccanismo più micidiale delle primarie per istruggere i partiti come strutture organizzate di rappresentanza. Lo sa bene chi conosca minimamente la storia politica degli Stati uniti. Prima sotto l’urto del movimento progressista-populista d’inizio secolo e poi con l’avvento della videopolitica degli anni sessanta-settanta, le primarie hanno fatto da grimaldello per smantellare i partiti americani. Espropriati del controllo delle candidature e ridotti a mere etichette senza organizzazione, questi partiti hanno dovuto cedere l’iniziativa politico-elettorale a più o meno improvvisati imprenditori politici, agli interessi irresistibili delle corporations, all’attivismo dei gruppi di pressione più vari. Quel meccanismo che doveva democratizzare il processo elettorale si è rivelato insomma la breccia perfetta per l’affermazione di una politica oligarchica. E non è privo di ironia che ad adottarlo per primi, negli anni settanta, furono i democratici. Il suo esito è stato infatti il crollo della partecipazione e la dilatazione sfrenata del ruolo del denaro nelle elezioni, cioè l’espulsione di una parte della popolazione, guarda caso quella economicamente più svantaggiata, dal processo democratico.
Perché le primarie hanno l’effetto (all’apparenza paradossale) di impoverire il processo democratico? Com’è possibile che questa procedura iper-democratica finisca per avanzare sempre in parallelo con la crescita dell’alienazione politica? Si badi bene: non dico che le primarie provochino di per sé (o almeno immediatamente) il declino della partecipazione. Le due cose derivano semplicemente dalla stessa logica, quella del direttismo, che non mira alla democrazia partecipativa, bensì ad annichilire le strutture intermedie di rappresentanza politica. Cioè i partiti. Poiché la partecipazione è correlata, più che a qualsiasi altro fattore, al senso di efficacia del proprio voto, l’elettore si accorge presto che esprimersi per un candidato piuttosto che per l’altro non serve a molto se poi non c’è un’organizzazione collettiva che stabilmente rappresenti, traduca in progetti politici e immetta nel processo di governo i propri interessi e valori.
Anche in Italia, come a suo tempo negli Usa, si cerca di far passare l’introduzione delle primarie come un favore che si farebbe ai partiti, perché possano rinnovarsi e rivitalizzarsi. E in effetti anche qui da noi l’innovazione è giustificata dalla crisi e dalla degenerazione in cui i partiti sono ormai caduti da tempo. D’accordo, ma rimane il problema che il rimedio è peggiore del male, nel senso che finirà per ammazzare il malato. Si tratterebbe allora di fare un discorso di verità: che cosa vogliamo farcene dei partiti? Da questo punto di vista, è perfettamente comprensibile che Prodi, nella sua posizione, sentendosi forte di un consenso che ormai va oltre i partiti che originariamente lo avevano designato, non intenda più essere il loro candidato e perciò voglia procurarsi attraverso le primarie una legittimazione autonoma. Ma non è comprensibile che i partiti stessi accettino volentieri di suicidarsi. Il sistema maggioritario e il profumo del potere sono senz’altro molto forti per resistergli, per non sacrificargli di volta in volta qualche pezzo della propria identità e della propria autonomia, ma da gruppi dirigenti degni di questo nome ci si aspetterebbe una capacità di guardare alla prospettiva, almeno di sapere (e dichiarare) dov’è che ci stanno portando.
Quella delle primarie è una strada da cui sarà poi difficile retrocedere, nel senso che non ci si può illudere che la scelta rimanga confinata a una certa congiuntura, a certe modalità e a un certo tipo di elezione o carica. Che cioè il meccanismo rimarrà sempre controllabile, come sembra più o meno in quest’occasione. Lo si è visto in America: esso tende ad autoalimentarsi, estendendosi (a tutte le candidature, e non solo quelle monocratiche) e intensificandosi (dalle primarie chiuse a quelle aperte, poi alle blanket e perfino alle nonpartisan), fino ad imporne l’istituzionalizzazione. Con partiti del genere, per metà statalizzati e per metà privatizzati, non meraviglia che la politica sia normalmente poco attraente. Dovrebbe meravigliare invece che ne sia proprio la sinistra il veicolo prediletto, in America come in Italia.
*docente di Scienza politica all’università «l’Orientale» di Napoli.