Primarie con Prodi? Meglio la Consulta della sinistra alternativa per un programma radicale

Caro Sandro, Rina Gagliardi invita chi dissente dal segretario nazionale ad argomentare la «pretesa “superiorità” della propria condotta». Senza alcuna presunzione di superiorità, ci mancherebbe, provo a rispondere alle sue sollecitazioni.

1) Nessuno, certo non chi scrive, contesta il valore della democrazia partecipata. Non abbiamo vissuto l’esperienza dei Consigli ma abbiamo imparato da Porto Alegre e dal movimento. Ho giudicato intelligente la “mossa” della candidatura di Bertinotti alle primarie perché portatrice di un programma alternativo a quello dell’Ulivo. Quello che non condivido, invece, è che su temi come la guerra (ma attenzione, il vero punto è il ruolo dell’Onu e le sue presunte missioni di pace) si offra la disponibilità a sottomettersi alla volontà della maggioranza per quanto la più ampia e partecipata possibile. Credo che un partito che voglia difendere una scelta strategica, se finisce in minoranza debba dire «grazie non ci sto». L’autonomia si costruisce anche così. Tanto più in presenza di una consultazione pseudo-elettorale, come le primarie, che assomiglia più a un sondaggio che all’esperienza dei Consigli. Non a caso è una tradizione statunitense. Il principio di “maggioranza”, in presenza di una consultazione per nulla chiara, rischia di lasciare sul terreno solo la disponibilità, fosse solo percepita, ad accettare un programma moderato. E anche il paragone con la Fiom è arbitrario: lì c’è una collocazione sociale, di classe, inequivocabile. Nelle primarie, invece, quale sarebbe il corpo elettorale? Quali garanzie democratiche, e di contenuto, avremmo? E il movimento, nella sua complessità e geografia, avrebbe le risorse per realizzare un intervento così decisivo? E’ questa la sua priorità?

2) Abbiamo bisogno di battere le destre e proporre un’alternativa mantenendo il profilo di un partito coerentemente anticapitalista. E’ difficilissimo e i rischi sono due: finire nell’isolamento e nel settarismo o appiattirsi e omologarsi. Ma, appunto, i rischi sono “due” e oggi io metto in guardia sul secondo, sforzandomi di non far prevalere il primo. Come si fa? Intanto, credo che vadano rovesciate le priorità. L’urgenza è fare in modo che dai movimenti di questi anni, dall’esperienza comune, dalle convergenze realizzate, si consolidi una più ampia sinistra anticapitalista, non la definizione di un accordo di governo con chi – l’Ulivo – tutela gli interessi padronali. E’ chiaro che questo progetto deve porsi anche il problema dell’alternativa alle destre ma, appunto, in chiave di una risposta coerente alla crisi del capitalismo, in Italia e in Europa. Quindi con un programma radicale, di “transizione” (da fare anche nel vivo delle lotte: cosa facciamo in autunno, come contrastiamo Berlusconi?). I sei punti della Fiom avevano questo pregio. E forse una consultazione, una Consulta, della sinistra alternativa e dei movimenti sarebbe più utile delle primarie con Prodi. Più sarà forte e partecipato questo processo, più si intreccerà con i movimenti e le lotte dell’autunno, più si avrà possibilità di spostare il terreno del confronto e mettere in difficoltà il gruppo dirigente del centrosinistra. In questa idea delle primarie di massa, in fondo, trapela l’ipotesi di una distinzione tra una base “buona” del centrosinistra e una dirigenza “cattiva”. La situazione è molto più complessa: basti guardare ai risultati elettorali, allo stato della lotta di classe, ai rapporti nei luoghi di lavoro. E alla saldezza con cui i leader dell’Ulivo governano, su posizioni liberiste, i rispettivi partiti. Anche per questo, un rapporto di vertice sarebbe sbagliato, ma proprio per questo abbiamo la necessità di valorizzare il movimento per costruire un ampio spazio politico, e programmatico, a sinistra dell’Ulivo, da far pesare nella contesa, soprattutto sul piano delle lotte. E da far pesare a livello programmatico. Anche in un confronto più ampio e diffuso. Sarà sulla base di questo confronto che si dovranno fare le scelte finali, con differenti gradazioni. Si può accettare il programma che ne esce – e ho molti dubbi in proposito – oppure disporsi a soluzioni tecnico-elettorali per battere Berlusconi. Il fatto che la desistenza sia stata già utilizzata non significa che vada accantonata.

3) L’ultima annotazione riguarda il modo di discutere. ll segretario sviluppa, legittimamente, la sua linea. Ha ricevuto un mandato e cerca di assolverlo. Anche chi si oppone cerca di argomentare le proprie ragioni. Allora, perché dissentire deve essere definito «dannoso», «scelta di nicchia», «calcolo congressuale» o addirittura un modo di «far prevalere le ragioni del conflitto interno sugli interessi del nostro popolo»? Addirittura, nemici del popolo? Perché scivolare così nell’insulto? La nostra discussione sarebbe più produttiva se mantenesse intatto lo stile dell’innovazione.

Salvatore Cannavò