Prima eroi, ora terroristi. Una resa costruita in Italia

Speriamo che non succeda più, ma se in futuro un italiano venisse rapito in Afghanistan chi lo salverà? La risposta è semplice: nessuno. Con la chiusura degli ospedali di Emergency finisce un ciclo, nel peggiore dei modi. Perché quei centri d’assistenza sanitaria erano l’unico intervento italiano di pace laggiù e perché svolgevano una ruolo essenziale per la popolazione; ma anche perché erano una sponda di dialogo, un luogo neutrale in cui la relazione con il «nemico» era – almeno in teoria – possibile. Come è sempre stata in tempo di guerra la Croce rossa internazionale. Quella sponda è svanita perché prima sfruttata e poi abbandonata; anzi, lasciata in pasto a una delle parti in lotta con il sequestro di Rahmatullah Hanefi a opera del governo Karzai. Ma quest’ultimo non è il solo responsabile dell’esito finale. Pesanti colpe gravano sul governo italiano, durante e dopo il sequestro di Mastrogiacomo.
La gestione italiana del rapimento dell’inviato di Repubblica, del suo autista e del suo interprete, è stata folle. Il nostro governo era dentro una contraddizione: da un lato faceva (fa) la guerra ai talebani, dall’altro doveva trattare con essi per liberare i tre sequestrati. Per uscire da quest’impiccio la gestione sul campo delle trattative è stata delegata a Emergency. Soluzione comoda perché l’associazione di Gino Strada era l’unica presente sul terreno e l’unica con una credibilità tale da poter interloquire con tutti, dal governo di Kabul ai talebani. Ma soluzione anche piena di complicazioni, su tutte il fatto che Emergency non poteva – ovviamente – prendere alcuna decisione nel merito della trattativa. Insomma, l’ong italiana si è trovata a gestire sul campo una trattativa che non faceva, portando il peso di decisioni prese da altri. Emergency ha accettato questo ruolo, usando la prpria credibilità, ma esponendosi moltissimo. Anche perché non ha potuto contare – se non molto relativamente – sull’appoggio dei servizi italiani che, dopo l’uccisione di Nicola Calipari e il terremoto ai vertici del Sismi per lo scandalo Abu Omar, non sono praticamente intervenuti. Un «non intervento» che la Farnesina ha accettato (o imposto?) di buon grado.
A peggiorare una condizione così difficile è intervenuto l’atteggiamento politico del governo italiano. Si pensi, ad esempio, alle improvvide dichiarazioni di D’Alema che, a trattative in corso, ha placidamente dichiarato: «Noi non trattiamo con i talebani». L’esternazione fatta per rassicurare il governo americano – e ottenerne il silenzio-assenso – ha irritato molto i sequestratori e messo ancor più in difficoltà Emergency. Poi D’Alema è tornato indietro, premendo insieme a Prodi su Karzai per far sì che le richieste dei rapitori fossero esaudite. Ma questi continui dietro front non hanno aiutato. Anzi, hanno spinto i talebani ad alzare il prezzo e, forse, anche il giallo del rilascio-risequestro dell’interprete di Mastrogiacomo affonda le sue ragioni – oltre che nella confusione di quei momenti – anche in questa ambiguità italiana. La pavidità del nostro governo nel non voler farsi carico direttamente del sequestro è poi precipitata in un sostanziale assenteismo con il caso Hanefi: nessuno ha mai avuto il coraggio di dire una cosa semplice: «l’uomo di Emergency era il mediatore da noi incaricato. Ha agito per conto nostro».
Così, oltre ai due uomini assassinati dai talebani, oltre al venir meno dei luoghi di cura per la popolazione afghana, oltre alla vita di Hanefi messa a repentaglio, questa storia si chiude con una caduta di credibilità del nostro paese in quelle zone, al punto che i nostri stessi «alleati» si sentiranno legittimati a considerare chiusa la stagione delle trattative, cosa del resto accettata dal voto del nostro Parlamento con cui si decreta che sarà la Nato a decidere che fare in caso di sequestro di persona nelle zone di guerra. Che tradotto vuol dire: non si tratta più.