A metà degli anni 80 l’antropologo californiano Philippe Bourgois si trasferisce -insieme alla moglie e il figlio appena nato- a New York per «scrivere un libro sulla povertà e la segregazione etnica nel cuore di una delle città più costose del mondo». Come campo della ricerca sceglie il quartiere latino di Spanish Harlem e, più precisamente, l’angolo tra la 110ª strada e Lexington avenue dove in quegli anni prospera, camuffata di giorno da sala-giochi e di notte da night-club, la crackhouse del boss portoricano Ray.
La decisione di Bourgois, esperto in studi sulla marginalità e le minoranze, presuppone un coraggio ai limiti dell’avventatezza: El Barrio, all’epoca, viene considerata una delle zone più degradate e violente della metropoli e la comunità portoricana, prepotentemente attaccata alla cosidetta «cultura di strada» e alle proprie radici jibaro, una delle roccaforti di quell’economia sommersa legata allo spaccio di droga.
Vinte le diffidenze iniziali, il professore riesce a farsi accettare dal clan di Ray e per cinque anni trascorre gran parte delle sue serate insieme agli spacciatori e i drogati (spesso i personaggi ricoprono entrambi i ruoli) che frequentano abitualmente la crackhouse. Il risultato sono le trecentocinquanta pagine dell’avvincente Cercando Rispetto (drug economy e cultura di strada), tradotto e curato da Alessandro De Giorgi per DeriveApprodi.
In perfetto equilibrio tra saggio e reportage, senza tralasciare brevi incursioni nel privato (drammatico a tal proposito l’accenno di Bourgois alla malattia del figlio), il libro mi ha ricordato per la totale immedesimazione dell’autore in un contesto senza dubbio difficile, un altro capolavoro della saggistica americana, quel Hoboemia del barbone-sociologo Nels Andersen che, all’inizio degli anni 20, aveva analizzato la vita randagia dei senza-tetto del Loop di Chicago.
Appoggiati alle auto in sosta o seduti negli androni di fatiscenti case popolari, tra un tiro di coca una sorsata di birra e una boccata di crack, mentre sullo sfondo riecheggiano colpi di pistola e raffiche di Uzi, i personaggi intervistati da Bourgois si descrivono e si raccontano senza reticenze, quasi lusingati dall’attenzione che lo strambo studioso riserva alle loro dolenti esperienze da emarginati: la precoce iniziazione alla droga, i raggelanti stupri di gruppo ai danni di ragazzine che vengono poi introdotte al mondo della prostituzione, il machismo, il senso di appartenenza e, soprattutto la frustrazione per una vita che appare segnata sin dall’infanzia. Intrecciate le une alle altre si susseguono così impietose le storie del carismatico e crudele capo-banda Ray, della «sentinella» Cesar, di Primo (uno degli spacciatori della crackhouse a cui l’autore si affeziona di più e con cui riesce a intrecciare un’amicizia che si consolida negli anni) e dell’imprevedibile e focosa Candy, ragazza-madre dai trascorsi burrascosi molto rispettata all’interno della collettività. Storie individuali che risultano però paradigmatiche dell’impossibilità strutturale degli abitanti di El Barrio a emanciparsi da una ghettizzazione economica e sociale a cui lo Stato e le circostanze li costringono.
Ne esce fuori il ritratto spietato di un America sempre più intenzionata ad allargare la forbice della disuguaglianza, incapace di frenare la sua spinta voracemente liberista a scapito delle fasce più deboli, attraverso lo smantellamento delle più elementari forme di welfare che, nel migliore dei casi, appare intriso di un burocraticismo kafkiano.
Le conclusioni a cui giunge Bourgois paiono chiare: se gli immigrati portoricani di seconda e terza generazione di East Harlem scelgono il mercato della droga, non è per un innato senso della trasgressione, ma perché l’unico in grado di garantire loro uno stile di vita accettabile, adatto a competere con il modello dettato dalla middle-class americana di stampo anglo. Nella ricerca del guadagno facile -sostiene Bourgois-, i nuyorican non fanno altro che seguire l’ideale del sogno americano.
Colonia fondata dagli olandesi nel diciasetttesimo secolo, meta dell’immigrazione italiana alla fine dell’ottocento, a cui si sostituisce, negli anni 40, la comunità latina; East Harlem è storicamente una delle zone più povere di New York. Ma le cose con gli anni sono andate peggiorando. Se fino agli inizi degli anni 60 la richiesta di manodopera nelle fabbriche aveva contribuito a creare una working class dignitosamente integrata e sindacalizzata, il conseguente fallimento della riconversione della forza-lavoro nel campo del terziario ha causato uno spostamento traumatico verso l’economia del sommerso e dell’illegalità.
In questo contesto la cultura di strada diventa allora l’unica arma sociale capace di attenuare il senso di frustrazione, l’unica opportunità per rivendicare un rispetto messo duramente alla prova, più che dalla povertà, da una mancanza di prospettive.