Nell’ambito delle giornate della Fao dedicate al commercio si è parlato di Ape o Epa, i nuovi accordi fra Unione europea e le ex-colonie di Africa, Caraibi e Pacifico, i cosiddetti paesi Acp. Alla presenza di alcune figure istituzionali – la vice-ministro Patrizia Sentinelli, gli esperti della Fao e quelli della Commissione europea – i rappresentanti delle organizzazioni contadine del Sud e del Nord del mondo hanno espresso le loro preoccupazioni. Ne abbiamo parlato con Mamadou Cissokho, presidente e fondatore di Roppa, la rete dei produttori agricoli dell’Africa occidentale.
Qual è lo stato dei negoziati Epa?
Gli europei conoscono il livello di sviluppo dei paesi africani e sanno che, se faranno pressioni per ottenere la firma entro la fine dell’anno, hanno buone possibilità di ottenerla ma non avrà alcun significato perché sarà impossibile applicare gli accordi. In realtà, all’interno dei singoli paesi, ci sarebbe parecchio lavoro da fare anche solo per arrivare al livello di poter dire sì o no in modo consapevole. L’Europa ha un mercato agricolo, una politica agricola europea e una sola visione, ma per costruire tutto ciò ha impiegato decenni, mentre noi siamo appena all’inizio di questo percorso. Va sottolineato che l’Unione europea non è stata fatta attraverso la semplice liberalizzazione dei mercati ma, al contrario, passando per misure protezionistiche, aiuti statali e graduali trasformazioni, mentre a noi viene proposto un pacchetto “prendere o lasciare”. Ora, tutti vogliamo andare avanti con l’integrazione regionale e con i negoziati sui nuovi accordi, ma bisogna prima uscire da una situazione di sottosviluppo radicato. Chi dice che entro il 2020 ci deve essere la liberalizzazione totale dei mercati non fa i conti con la realtà. Va invece fissato un meccanismo che definisca a quale livello di integrazione è possibile un dato livello di liberalizzazione, esattamente come ha fatto l’Europa quando sono entrate Spagna e Portogallo e come continua a fare: per la Polonia e gli altri paesi appena entrati nell’Unione è stato fissato un percorso graduale di apertura del mercato locale. Ogni giorno c’è un’evoluzione delle regole e dei meccanismi in funzione del livello di sviluppo dei singoli paesi: noi chiediamo semplicemente un trattamento simile.
Come rispondono a queste richieste i negoziatori della Commissione europea?
Non rispondono. In realtà credo che siano intrappolati nel loro calendario. Sostengono che entro l’anno bisogna firmare gli accordi Epa perché l’Unione europea ha preso con il Wto l’impegno di abolire il trattamento differenziato che le convenzioni di Lomé e quella di Cotonou garantivano alle ex-colonie. Certamente, se vengono utilizzati degli strumenti di pressione, l’Ue può spingere i governi dei paesi Acp a firmare, ma a cosa servirebbe? Se ti costringo a firmare un documento in cui ti impegni a darmi un milione di dollari in due giorni, tu puoi pure firmare ma non per questo ti ritrovi in tasca i soldi… I nuovi accordi di partenariato economico impegnano a fare alcune cose specifiche: il presidente della repubblica può anche firmare ma poi sono gli attori economici che dovranno operare questi cambiamenti. Senza industriali, imprenditori, trasportatori, contadini e tutte le categorie chiamate a mettere in pratica gli accordi non se ne fa niente, ma queste categorie non sono state né interpellate né informate. Noi di Roppa ad esempio pensiamo che il nostro mercato sia già troppo aperto. Il presidente può firmare quello che vuole ma alla fine deve fare i conti anche con noi… Quando uno Stato viene chiamato a sottoscrivere un accordo deve prima valutare se il suo paese è in grado di mantenere o meno gli impegni presi. Bisogna lavorare con livelli diversi di sviluppo, e questo lo sanno anche gli europei. Se non c’è alcuna possibilità di rispettare gli impegni, chiudere un accordo in questo modo non è serio, anche se “ce lo chiede il Wto”, come ci viene ripetuto dimenticando che lo stesso Wto è bloccato da anni. Bisogna che gli impegni siano commisurati alle possibilità: per oggi possiamo fare questo, se domani possiamo fare di più faremo di più, se invece è stata una brutta annata dobbiamo poter tornare indietro.
Gli europei sembrano più interessati alla parte degli Epa relativa allo sviluppo delle infrastrutture necessarie all’integrazione dei mercati – strade, porti e aeroporti – piuttosto che all’agricoltura. Non sarà un modo per tenere lontani i cinesi che stanno investendo ovunque in Africa?
Le infrastrutture sono molto interessanti per le imprese europee. Ma i cinesi, gli indiani e tutti gli altri lavorano negli spazi di manovra che europei e americani lasciano loro. Non è complicato: Fondo Monetario, Banca Mondiale e Ocse sono nelle mani degli europei e degli americani, e sono le tre istituzioni che dominano l’ideologia e il meccanismo economico globale. I cinesi hanno poca voce in capitolo, possono muoversi entro margini molto ristretti. Ma Africa ed Europa sono partner naturali storicamente, culturalmente e geograficamente, e l’Europa ha tutto l’interesse che la nostra situazione migliori. Oggi il continente africano è il più ricco di risorse non ancora sfruttate ma, come si vede in Congo, nessuno può sfruttare queste risorse in una situazione di conflitto generalizzato. Dunque l’Europa ha interesse a lavorare con noi perché ci sia la pace, l’occupazione, la sicurezza, insomma per costruire delle società solvibili, dove si possa lavorare.
Quanto è estesa la mobilitazione contro gli Epa in Africa?
Per il momento non molto, almeno considerando i 253 milioni di persone che popolano l’Africa Occidentale. Ma i contadini si stanno cominciando a organizzare, manifestano, diffondono informazioni utilizzando i media, fanno pressione sui capi di stato per avvertirli delle conseguenze di questi accordi. Come Roppa siamo riconosciuti dai governi e partecipiamo ai negoziati però con posizioni molto chiare: non lasceremo rovinare la nostra agricoltura. In Europa il settore agricolo impiega il 2 per cento della popolazione che, ogni anno, riceve decine di milioni di euro di sussidi. In Africa Occidentale dipende dall’agricoltura il 60 per cento della popolazione ma i governi non stanziano che pochi spiccioli. E nel frattempo i contadini vengono sbaragliati dalla concorrenza dei prodotti europei sussidiati, che già invadono i nostri mercati.
In concreto quindi cosa chiedete?
Prima di tutto che venga data priorità all’integrazione regionale attraverso lo sviluppo dei mercati locali e regionali rispetto all’ipotetico sviluppo del mercato internazionale. Poi chiediamo che venga definito un regime commerciale che tenga conto dell’asimmetria esistente, il che significa escludere dalla liberalizzazione i prodotti agricoli sensibili, ovvero quei prodotti importati che si pongono in competizione – sleale, visto che sono sovvenzionati – con i prodotti locali. Terzo: migliorare la partecipazione delle organizzazioni contadine e di altri attori economici ai negoziati Epa, sia per rispettare i principi democratici sottesi all’Accordo di Cotonou sia come precondizione per la loro concreta applicazione. Ma soprattutto chiediamo tempo: per implementare le politiche regionali, per condurre valutazioni più approfondite degli impatti dei diversi regimi commerciali e per rafforzare la capacità di ciascuna regione di definire e difendere una posizione negoziale in conformità con i propri interessi.