Premiati i fratelli Dardenne

Un cinema lucido; esplorazioni di esseri umani soli, forse non disperati ma certamente non consolati; una macchina e un montaggio apparentemente assenti invece spesso fin troppo a ridosso dei protagonisti; un cinema di indagine sociale che in fondo non somiglia a nessun altro. Questo, e ovviamente altro ancora, è il cinema dei fratelli Jean Pierre e Luc Dardenne. I registi belgi, vincitori per ben due volte a Cannes, hanno al loro attivo, oltre numerosi esperienze documentarie, quattro lungometraggi (La Promesse, Rosetta, Il figlio, L’enfant) che li hanno fatti assurgere al ruolo di autori molto corteggiati. I Dardenne sono venuti ad Avellino a ritirare il Premio Camillo Marino che da quattro anni si consegna nel capoluogo irpino in ricordo del critico locale di tendenza iper (e spesso vetero) neorealista. Dopo i premi a Ettore Scola, Gillo Pontecorvo e Ken Loach, i fratelli Dardenne hanno incontrato pubblico e stampa. Parlano spesso in tandem e, dopo una simpatica presentazione («alla mia destra c’è la persona che ha girato metà dei miei film», dice Jean Pierre, «e lui la metà dei miei» ribatte Luc), si entra nel vivo. Luc si avvicina al cinema dopo una esperienza teatrale non esaltante mentre Jean Pierre è decisamente influenzato dal rapporto con Armand Gatti. «Abbiamo iniziato a fare ritratti filmati della gente, soprattutto operai, li invitavamo a denunciare le ingiustizie subite e poi proiettavamo tutto nelle parrocchie. È dall’elaborazione di questi filmati che abbiamo realizzato il nostro primo documentario».
Dall’indagine sulla fatica e lo sfruttamento è nato anche La Promesse, primo lungometraggio, che ha affrontato il tema del lavoro nero e degli immigrati. «Sappiamo tutti – riprende Jean Pierre – come è difficile integrare gli immigrati nei nostri paesi. Non conosciamo bene la situazione italiana, ma in Belgio è molto difficile, esistono ancora clandestini che muoiono sul posto di lavoro senza che nessuno ne sappia niente». «Quello che ci interessa – continua Luc – sono le situazioni difficili dal punto di vista umano. È la solitudine nella società del consumo il punto forte della nostra indagine». Si passa al modo di lavorare e Luc è il primo a dichiarare un disagio: «Ho molta difficoltà a commentare il nostro modo di girare. Spesso ci rendiamo conto che è impossibile afferrare tutta l’essenza di un personaggio perché il corpo del protagonista prende possesso della situazione, e il corpo è l’unica cosa che rimane a queste persone. Lavorando direttamente con l’attore cerchiamo il respiro della persona, la scena deve preesistere e la videocamera arriva poi». I Dardenne non amano i confronti del loro cinema con quello di Bresson, Ken Loach, Rossellini. «Dal grandissimo autore italiano ci separa la sua visione divina, i nostri personaggi hanno la speranza ma non trovano risposta in un dio». «Tuttavia – concludono – non siamo post moderni perché vorrebbe dire che siamo diventati cinici, e questo non è vero».