Precarietà e salari bassi sono i veri problemi del mondo del lavoro

All’ennesima uscita di Pietro Ichino, assertore della precarietà selvaggia e inflessibile fustigatore di presunti privilegi dei lavoratori, sarebbe forse il caso di non dare molto peso. Se non fosse per le colonne da cui scrive, quelle del più prestigioso quotidiano italiano, e per l’aurea di scienziato portatore di verità inconfutabili, lo si potrebbe definire, usurpando per l’occasione più nobili ragionamenti, un “intellettuale organico”. Un intelligente pubblicista della vulgata comune che nasconde, sotto il velo dell’efficienza a tutti i costi, l’obiettivo della compressione dei diritti collettivi dei lavoratori. Dalla difesa ad ogni costo della Legge 30 alla campagna per abolire la contrattazione collettiva nazionale, Pietro Ichino sembra aver sincronizzato il suo orologio con quello di Confindustria.
Per smentire l’ultima proposta di Ichino, pubblicata sulle colonne del Corsera nei giorni scorsi e già contestata brillantemente da Sansonetti, basta poco. Il professore denunciava l’orrore di 6,8 milioni di ore di assenze per malattia in più rispetto al 2005. La risposta, più solida di mille polemiche, proviene dal quotidiano La Repubblica.it che titolava: “Scuola, è vietato ammalarsi: mancano i soldi per i supplenti”, riportando la denuncia di decine di presidi sparsi in tutto il paese, messi nell’impossibilità di svolgere il proprio mestiere a causa del taglio di risorse deciso con l’ultima finanziaria. Quella dei 35 miliardi di tagli, che a Ichino sarà tanto piaciuta per il suo moraleggiante rigore monetarista.
Al di là delle polemiche, e del giusto impegno a organizzare al meglio i servizi, rimane un dato, semplice quanto allarmante: la diminuzione della spesa e la assunzione in toto di logiche aziendaliste all’interno degli uffici pubblici, ne ha provocato un drastico peggioramento, a detrimento dell’intero sistema paese. La privatizzazione ha investito beni e servizi di ogni tipo, dall’acqua agli ospedali fino alle scuole, ha cancellato il ruolo dello Stato come garante della coesione sociale e dell’aspirazione costituzionale all’eguaglianza sostanziale, da perseguire attraverso politiche di redistribuzione del reddito. Ha prodotto un peggioramento dei servizi per i più, e la fuga di ingenti risorse ai profitti dei privati. Tuttavia, oggi, queste pratiche non hanno più il consenso unanime di un tempo, quando si vestivano dell’antipolitica berlusconiana o del tecnicismo dei primi governi di centrosinistra. Oggi, a differenza del passato, non è solo una piccola parte del paese a chiedere di fermare la rapina, ma – crediamo – l’intero popolo dell’Unione, che ha patito il peggioramento delle proprie condizioni di vita durante tutti questi anni. Una realtà che, con maggiore profondità di buona parte del sindacato e delle forze politiche, hanno ben compreso Fiom, Film e Uilm con la loro piattaforma. Infatti, dinanzi all’impennata dei profitti delle imprese metalmeccaniche, hanno chiesto 147 euro di aumento per il rinnovo del contratto. Rispondendo, inoltre, alle pesanti ipotesi di limitazione del valore dei contratti nazionali, emerse anche sui tavoli di trattativa tra governo e parti sociali, hanno richiesto 30 euro suppletivi, per le aziende in cui manchi la contrattazione di secondo livello e legando le flessibilità di orario a importanti aumenti delle maggiorazioni.
Tanto è lampante la necessità di aumentare i salari che lo stesso Ichino, a conclusione del suo articolo, non può esimersi dal notare che quelli italiani sono i peggiori d’Europa, e che i soldi recuperati dai fannulloni finti malati (per Ichino circa un miliardo, comunque un quinto del cuneo fiscale regalato alle imprese) dovrebbero essere ridistribuiti proprio a loro. Un vantaggio per il quale, secondo Ichino, tutti i lavoratori sarebbero ben disposti a rinunciare a parte del proprio stipendio per i primi tre giorni di malattia (per gli altri giorni nessun problema, paga l’Inps). Non sa, o nasconde di sapere, l’illustre docente milanese, che una regola del genere già vige per i 3 milioni di finti cocoprò, lavoratori autonomi per legge, subordinati nei fatti. Né ritiene opportuno, Ichino, impegnarsi in una battaglia per difendere i lavoratori costretti dai propri padroni a firmare le proprie dimissioni al momento dell’assunzione, o le donne licenziate perché in gravidanza. O i 4 milioni di precari a cui ogni cattivo pensiero di lassismo può costare il mancato rinnovo del contratto.
Ma Ichino ha già pronta la risposta a quelle che, egli stesso, definisce “obiezioni di rito”: perché non dedicarsi ai veri problemi, i salari, il lavoro nero, le morti bianche? Perché, egli ritiene, esse sono frutto della stessa decadenza culturale di un paese in cui manca la cultura del lavoro. Appunto, gli rispondiamo. Piuttosto che a pochi malati immaginari, perché non scrivere un bell’editoriale sui furbetti del quartierino, sui crack realizzati ai danni dei piccoli risparmiatori, su una classe imprenditoriale dedita al ricatto nei confronti della propria forza lavoro, e alla ricettazione di risorse pubbliche? Perché non scrivere un chiaro e semplice articolo che spieghi ai lettori del più nobile quotidiano italiano quali nefandezze si nascondano nel caso Telecom? Perché non parlare degli esorbitanti aumenti dei compensi dei manager pubblici e privati e delle loro “buone uscite”, mentre i salari hanno perso pesantemente potere d’acquisto? O dei 1.300 lavoratori uccisi ogni anno in infortuni sul lavoro, causati in gran parte dai risparmi che le aziende producono anche nel campo della sicurezza?
Provi ad immaginare, il professor Ichino, a mantenere una famiglia con 1.200 euro al mese. Potrebbe venirgli un mal di testa da costringerlo a prendersi tre giorni di malattia! E, in quel caso, chi ci allieterebbe con gli editoriali contro i lavoratori fannulloni?