E se la cultura economica che domina la contemporaneità fosse esattamente ciò che diceva ironicamente John Maynard Keynes, il lascito di «scribacchini» già da tempo nella tomba, che condizionano post mortem l´azione dei governi senza che ci sia più un legame realistico fra le prescrizioni della teoria e le condizioni effettive della società? Chi ha questo dubbio, e guarda con diffidenza alle “ricette” neoliberiste più festose e diffuse, trova negli scritti di Luciano Gallino uno schietto antidoto intellettuale.
Il sociologo torinese è infatti un contestatore puntiglioso della dogmatica economica vigente. E rimasto nella memoria di molti un suo saggio del 1998, Se tre milioni vi sembran pochi, che affrontava con spregiudicatezza il tema della disoccupazione, smontando numerosi feticci della retorica neoliberista. E anche i suoi ultimi lavori, La scomparsa dell´Italia industriale e L´impresa irresponsabile, toccano alcuni punti nodali dello sviluppo dell´economia del nostro tempo, con un´attenzione meticolosa, intessuta di numeri e riscontri empirici, alla realtà italiana e alle semplificazioni della sua rappresentazione ideologica.
La sua ultima pubblicazione, Italia in frantumi, pubblicata da Laterza (pagg. XVI-188, euro 12), è una raccolta degli articoli scritti per la Repubblica fra il 2001 e il 2005, raggruppati tematicamente lungo un filo conduttore che si stende fra «la degradante frammentazione» dei rapporti di lavoro e la «irresponsabilità della globalizzazione». Dati questi termini, ci vorrebbe poco a classificare Gallino come un esponente “reazionario” rispetto alle tendenze egemoni. Sarebbe un´accusa credibile se l´autore fosse il sostenitore di un nostalgico ritorno a una suggestiva età dell´oro fordista, quando i grandi imprenditori «sapevano benissimo che lavoratori ben retribuiti, aventi un lavoro stabile, tutelati da un appropriato quadro giuridico, con un orizzonte di garanzie assistenziali e previdenziali, contribuiscono alla creazione collettiva di ricchezza in misura assai più rilevante che non i lavoratori che di tali beni sono del tutto privi».
Conviene invece considerare le riflessioni di Gallino, sul piano della visione complessiva, come un rilevatore puntuale delle falle nella vulgata “globale” prevalente; sul piano empirico, come un controcanto fattuale ai provvedimenti del governo di centrodestra nel nostro paese. Alla base della sua concezione c´è la descrizione dell´assetto socioeconomico mondiale nella forma della «coppa di champagne», una rappresentazione grafica della distribuzione del reddito pro capite in cui i tre quarti del reddito mondiale vanno al 20 per cento più ricco della popolazione.
Il «culto della flessibilità» rappresenta quindi una religione fondata sulla disuguaglianza. Il mercato del lavoro nei paesi sviluppati è caratterizzato da una anomica estensione del settore «informale» dell´economia. Fra le polarità della globalizzazione e della flessibilità, che mettono in tensione le economie locali, acquistano una luce diversa anche gli sviluppi più recenti del nostro assetto economico e sociale affrontati: la cosiddetta legge Biagi, con le sue 48 fattispecie di rapporti di lavoro precarizzati, il caso della Fiat come emergenza di una parabola industriale declinante, la riforma della scuola e dell´università come processo regressivo e classista, la flessibilità nel mercato del lavoro che provoca l´interiorizzazione dell´insicurezza, le nuove povertà che si rilevano sullo sfondo del mercato globalizzato.
Con i loro impliciti echi olivettiani, i reportage sociologici di Gallino appaiono inattuali solo se si scambia il suo realismo per un´alternativa impossibile anziché per ciò che sono realmente: ossia il tentativo assiduo di verificare le soluzioni connettendole a una concezione di fondo non corriva, che faccia i conti con l´evoluzione della società senza concedere nulla alle ovvietà delle formule. La complessità dei problemi richiede soprattutto conoscenze appropriate, non astratte, riferite a una visione esplicitamente politica. Una lezione che è un pungolo in più per chiunque debba trovare, in chiave di governo, un punto di equilibrio fra la libertà economica e una società che non rischi la disintegrazione.