Precari, a quando i conflitto di classe?

Dice: la letteratura della precarietà. Dice anche: il cinema, il teatro, l’arte che si occupano della precarietà. Si torna a parlare di lavoro, dice. Un bel numero di libri, di iniziative culturali, di spettacoli, di film che parlano di cosa sta diventando il lavoro oggi, della condizione sofferente, sempre più pervasiva, sempre meno provvisoria, di una generazione che si definisce, senza troppa fatica, precaria. Si potrebbe dire che forse è sempre stato così. È sempre andata così nel mondo di chi pensava che i rapporti di produzione influenzassero, determinassero gran parte se non tutto il resto delle forme di vita. Da Marx in poi pare, questo, un dato acquisito. Finanche nella Costituzione per dire, e proprio in cima. Gli scrittori, gli intellettuali, gli artisti hanno sempre parlato, si sono sempre interrogati sul rapporto tra il lavoro e la vita. Che cosa c’è diverso oggi? La sensazione che una differenza però ci sia, o meglio che esista un deficit. Per parlare di scrittura, quando Bianciardi o Volponi o Ottieri o Balestrini pubblicavano i loro romanzi per cui si parlava di letteratura dell’industria, questi non partivano soltanto da
un’esperienza (personale) o ancor meno da un’urgenza; ma portavano con sé una riflessione teorica, molto spesso collettiva, che faceva da sfondo, da dialettica, da orizzonte, alla pagina dei libri. Esistevano non solo delle appartenenze partitiche, come ovvio, ma prospettive teoriche, concezioni politiche, o anche (soltanto?) visioni ideali di come sarebbe potuta essere la società italiana, o come sarebbe potuto cambiare il mondo. Ovvero: l’impegno non era soltanto un compito di
testimonianza, l’indagine del corpo sociale italiano non si limitava a una
dissezione, o a un computo di sintomi, gravi o meno gravi, ma indicava un altrove, un futuro, molto spesso un’utopia. Ci si poteva appellare
all’ortodossia marxista, o pensarsi keynesiani, o semplicemente luddisti; si era comunque in grado di segnalare una dottrina o almeno un immaginario con cui ripensare tutta la società e i suoi rapporti di lavoro. Oggi verrebbe da chiedere a chi scrive un libro sul precariato: che idea hai dell’Italia e del mondo? Se tu potessi cambiare le cose, da dove cominceresti? Che cosa hai da dire di più tu, in quanto scrittore,
intellettuale, del fatto che la condizione della precarietà lavorativa okay è mortificante, non riguarda solo il lavoro, ma affetta tutta l’esistenza? Oltre a schifarti del tuo percorso di intellettuale precario iperformato e malpagato, come agiresti, che cosa cambieresti alla base? Dice: questo dovrebbe essere il compito della politica, della politica professionale e non della letteratura, della cultura, della variopinta schiera di intellettuali, e cognitari cosiddetti. Ma – prima obiezione – come fa notare Stanley Aronowitz in Post-work.Per la fine del lavoro senza fine (Derive Approdi, pp. 302, euro 18), «è possibile affermare che l’effettiva assenza, nella cultura popolare come nel sapere istituzionale, di un racconto delle lotte che hanno portato alla formazione del movimento dei lavoratori nel XX secolo ha rappresentato un fattore cruciale nel declino del lavoro organizzato dopo gli anni Sessanta, quando i sindacati e le loro conquiste subirono un duro attacco e non furono in grado di opporre una resistenza efficace». Insomma c’è anche da registrare un deficit di memoria in tutte le narrazioni del lavoro che oggi si rivedono. Una mancanza di legame con quello che nel secolo appena passato, nel famoso secolo di quando c’erano ancora le ideologie, veniva pensato e scritto. Perché la realtà banale è questa: le narrazioni storiche e le narrazioni collettive sono servite e servono nel processo di formazione di una forza di classe. Come mai oggi questo non accade? Perché la condizione di precariato viene raccontata da mille
sfaccettature da prospettive parziali, individuali, molto spesso atomizzate? Forse perché – proviamo ad abbozzare un ipotesi – si dovrebbe smettere di parlare di precariato in questi termini, ossia accettando senza questionarla questa definizione culturale, “precariato”.
Un’espressione generica che racchiude in sé mille diverse e spesso contraddittorie caratteristiche, che rendono questa “generazione precaria” una parola evanescente come una “generazione X” qualsiasi. Mentre qui stiamo parlando di un fenomeno sociale enorme, di una massa di persone che, incastrate in questa formula che continua a rimanere un oggetto non identificato. Quando va bene assimilabile a una sorta di strato sociale, di eccedenza sociale, quando va male a un problema sociale, come per dire la delinquenza giovanile. Per la quale
si propongono leggi ad hoc, o misure di contenimento. Quando questi benedetti precari si cominceranno a vedere come soggetti politici? Come – mi si passi il termine desueto – si cominceranno a pensare come classe, come soggetto collettivo, capace di inserirsi in una dialettica di rivendicazioni e di lotte? Quando immagineranno il futuro? Non sarebbe il caso di ragionarci un po’?